C’è un presepe diverso quest’anno che calca il chiostro di San Giacomo, sede della Casa della Carità, ed è un inno alla speranza e alla cura, un simbolo dei tempi di distanziamento in cui transitiamo, ma anche della possibilità di aderire a nuove opportunità.
Un presepe in rottura con la tradizione del presepe vivente che oramai da quattro anni la Caritas di Foligno offre alla sua diocesi: un presepe figlio del suo tempo, senza persone, ma che racconta le persone attraverso delle seggiole ineditamente rivestite di cappotti e soprabiti. Sono seggiole-persone distanziate, seggiole-persone, alcune, addirittura senza seggiola, simbolo di chi non ha più casa, degli emarginati e di quanti in questo tempo si sono sentiti dispersi.
È in mezzo, però, al grigiore di questi cappotti che compare una seggiola diversa, rivestita di bianco, che accoglie tutte le altre come una capanna da contemplare: un tributo al personale medico e paramedico a cui tanto dobbiamo in questo 2020, ed effige, allo stesso tempo, del Bambino che nasce.
Un richiamo, quello di questo allestimento, anche all’anno di San Giuseppe – recentemente indetto da Papa Francesco – con le foto di Elvio Maccheroni che fanno da scenografia e da collante e che ritraggono il presepe vivente del 2018 costruito, quell’anno, proprio attorno al personaggio del santo. Un invito, questo, a non rinunciare a quei sogni e a quella speranza di cui tutta la figura di San Giuseppe è intrisa.
“Il camice bianco che copre una delle seggiole ha una manica che tende verso l’alto – spiega Loretta Bonamente, responsabile degli eventi della Caritas diocesana e curatrice da quattro anni della regia del Presepe vivente – Questa manica è un richiamo alla locandina che utilizziamo da sempre per il presepe, e che rappresenta appunto il Bambino con una mano tesa.” L’idea, però, non è di presentare Dio come un medico, precisa. “Nella Bibbia Dio non appare mai come un medico: è qualcuno che prima di tutto entra in relazione. Il termine “guarisce” viene usato pochissime volte nel Vangelo e solo alla fine. In riferimento a Gesù si parla piuttosto di “cura” perché è il malato che deve decidere di guarire. Gesù non va e guarisce, ma entra in relazione: ci cura se siamo noi, prima, a deciderlo.”
Un messaggio importante, questo, che la Caritas diocesana ha voluto sottolineare: un inno alla capacità di resilienza che si nasconde dentro ogni persona, alla possibilità di scegliere e di sperare e che anche nelle difficoltà più estreme non manca mai di palesarsi a chi soffre. Un’opportunità che nel presepe viene espressa con lo scheletro di due porte da cui si può – appunto – scegliere di entrare e di uscire.
“Al momento il presepe non è transitabile e le porte possono essere varcate solo con lo sguardo – si precisa – Negli orari di apertura della Caritas è comunque possibile contemplare il presepe dall’ingresso. Il nostro augurio è che possa essere percorribile nei prossimi giorni e di aggiungere, in mezzo alle tante seggiole, delle sedie vuote affinché i passanti possano sedersi ed esserne parte. Perché questo è il presepe di tutti. È il presepe di chi ha vissuto questo periodo. È il presepe di chi ha sofferto”.
Una sofferenza che, a guardare bene, è quasi trasfigurata da un piccolo angolo del presepe stesso: due cappotti che si abbracciano timidamente, segno che insieme è possibile varcare la porta della Fede e camminare nella stessa direzione.