“Questo è un luogo in cui la speranza impregna l’aria che si respira perché qui arrivano cinquantamila giovani l’anno: tutti giovani che portano nel cuore la speranza, che hanno un sogno, un progetto di vita. Quest’aria ne è impregnata come ne è impregnata la realtà dell’ospedale in cui tanti di voi rendono o hanno reso il loro servizio. In realtà ne è impregnata tutta la condizione umana, in quanto l’uomo è un essere che spera. Questa è una delle sue definizioni più importanti perché è quella che ci fa vivere ci fa andare avanti avendo sempre nel cuore una motivazione per non arrenderci”. Lo ha detto il vescovo delle diocesi di Assisi – Nocera Umbra – Gualdo Tadino e di Foligno, monsignor Domenico Sorrentino, venerdì 18 ottobre all’omelia della santa messa celebrata a conclusione del convegno sul tema “La speranza nella cura e nella malattia” che si è tenuto venerdì 18 ottobre, festa di San Luca evangelista, nella caserma “Gonzaga” di Foligno.
All’evento interdiocesano organizzato dagli uffici della pastorale della salute delle diocesi di Foligno e di Assisi – Nocera Umbra – Gualdo Tadino in collaborazione con la Cappellania militare della Caserma “Gonzaga” hanno partecipato circa centoquaranta persone di cui la maggior parte medici e personale sanitario.
“Abbiamo ascoltato – ha aggiunto il vescovo – che ci sono situazioni in cui se la nostra speranza è costruita solo su cose che inevitabilmente finiscono, la speranza sarà frustrata perché ci sarà il momento in cui tutto si stacca, il filo si rompe e se quella speranza è poggiata solo su quel filo la speranza fallisce. Grazie a Dio la speranza che il Signore ha messo nel nostro cuore non è soltanto una speranza umana e tantomeno è una speranza concentrata solo su quel filo che rappresenta la nostra vita terrena e che inevitabilmente è destinato ad essere interrotto. È una speranza più grande è quella che il Signore è venuto a riaccendere nel nostro cuore dopo che il peccato delle origini l’aveva spenta. L’uomo è nato con la speranza più grande della vita passeggera su questa terra. Il Signore non ha voluto la morte. Il Signore ha voluto la vita perché Egli è il vivente e quando crea questo coronamento della creazione materiale che siamo noi, il Signore programma per noi una vita infinita. Ci crea perché ci vuole figli. Noi siamo il coronamento della creazione. Portiamo tutto ciò che è bello della vita materiale ma portiamo qualcosa in più che è la nostra apertura spirituale. Quando il Signore ci ha creati ha voluto che questa vita spirituale si aprisse realmente all’infinito non soltanto con una speranza augurale. Ci ha dato nel cuore una speranza che è l’attesa di una certezza. Ci ha dato la certezza che lui ci vuole bene, ci ha fatti per amore e ci aspetta. Questa certezza è stata molto soffocata, diminuita dal peccato”.
Il convegno che ha preceduto la santa messa è stato moderato dal dottor Paolo Cappotto.
All’inizio della sua relazione il dottore Marco Schiarea si è interrogato, tra l’altro, su come il medico può rafforzare la speranza. “È fondamentale – ha detto – educarci ad una speranza che non sia ingenuo e facile ottimismo, ma capacità di aiutare le persone a rendersi conto delle proprie potenzialità e che queste potenzialità possano essere usate nella relazione con sé stesse con l’altro e con la realtà che lo circonda. Aiutarlo a non arrendersi affrontando le difficoltà passo dopo passo”.
Dopo essersi soffermato sul rapporto tra speranza a relazione il dottor Schiarea ha spiegato che “la speranza trae la sua forza vitale dalla relazione ed è un potente antidoto all’individualismo imperante di questa nostra società. La speranza attraverso la fiducia consente al malato di accogliere l’aiuto da parte dell’altro sia esso un familiare, un amico o un professionista della cura”.
La persona ha necessità di sperare “perché è tipico della natura umana proteggere la propria esistenza e cercare sempre motivi di speranza. Sperare – ha aggiunto – è necessario soprattutto quando si è minacciati dalla malattia. Quindi è importante che accanto alla persona e al suo contesto familiare ci siano professionisti competenti, motivati, responsabili che sappiano infondere speranza senza farsi illusioni e inganni”.
“Noi medici dovremmo avere una sensibilità estrema ed avere sempre le parole giuste. Il malato vuole calore e comprensione. Comunicare la speranza al paziente non significa illuderlo, ma puntare agli aspetti della ricerca che possono lasciare spazio ad un certo margine di ottimismo. Il paziente ha diritto alla speranza e il medico la deve tenere viva. Noi come medici cattolici non dobbiamo dimenticare di essere professionisti responsabili che hanno imparato a sperare e a dare speranza che si impegnano con passione e competenza nel proprio agire professionale sempre volto al bene delle persone che abbiamo in carico”.
Effetto placebo, effetto nocebo e guarigione spontanea senza spiegazione, fiducia nella cura e nel soggetto curante, differenza tra persone ottimiste e pessimiste, speranza dal punto di vista della psicologia cognitiva, e speranza e cura in tutte le sue sfaccettature sono gli argomenti approfonditamente trattati nella sua relazione dallo psicologo e psicoterapeuta Davide Di Vitantonio.
Il vicario generale don Giovanni Zampa ha sottolineato che per i cristiani la speranza “non è qualcosa da conquistare, da comprare, ma è una virtù teologale che ci viene data insieme alla fede e alla carità nel giorno del nostro battesimo. Quindi la speranza è qualcosa che abbiamo. Però molto spesso è qualcosa che non conosciamo”. Per spiegare approfonditamente tale concetto don Giovanni ha fatto riferimento al libro “Crisi come grazia. Per una nuova primavera della Chiesa” scritto dal vescovo Sorrentino.
“In questo senso – ha detto – ci viene in aiuto il vescovo che con il suo libro affronta i tre elementi caratterizzanti la crisi che stiamo vivendo: dei contenuti, delle relazioni e della solidarietà. E questa crisi tocca anche la speranza. Molto spesso non sappiamo cosa è la speranza. Non abbiamo relazioni che ci aiutano a vivere nella speranza e soprattutto non alimentiamo la speranza con la solidarietà. La speranza è in crisi perché momentaneamente l’uomo è in grande difficoltà”.
In riferimento alla caserma Gonzaga ha detto “siamo in un luogo dove passano cinquantamila giovani l’anno. I ragazzi oggi non hanno paura della morte, ma hanno paura di soffrire, del dolore, della fatica. Per questo gli manca la categoria della speranza. San Luca aveva capito che la speranza consiste nel visitare, nel fare visita. Nei ragazzi di oggi possiamo riaccendere la speranza: visitandoli, accompagnandoli, camminando con loro nelle case e tra le case: come dice il vescovo. San Luca da buon uomo di medicina sa che per dare speranza occorre visitare. San Luca da buon uomo di fede sa che per visitare occorre imparare da un Maestro, occorre imparare da Dio. Luca descrive Dio come un medico, come un infermiere, come un caregiver che fa visita. I nostri giovani, i nostri malati pur chiedendo di essere guariti, prima di tutto chiedono di essere curati. La speranza non ha la pretesa della guarigione, ma attende la cura: non lasciarmi solo, volgi il tuo sguardo sopra di me, abbi cura di me. I giovani hanno paura del dolore, hanno paura della fatica non hanno paura dell’esito. Ti dicono non ci lasciate soli, abbiate cura di noi. La visita è la cura. La teologia dice che la speranza è l’attesa di una certezza. Non visitare è un nocebo. Ecco le tre crisi di cui ci parla il Vescovo. Non dobbiamo avere i contenuti della speranza: la speranza implica relazione, la speranza implica solidarietà. Queste sono in maniera molto sintetica alcune frontiere che le nostre diocesi stanno affrontando. Il vescovo dice che questa crisi può diventare una grazia. Dobbiamo lavorare sui contenuti”.
A conclusione del convegno, toccante è stata la testimonianza personale del dottor Pier Giorgio Tacchi che ha dato lettura anche del testamento spirituale di Sammy Basso, biologo simbolo dell’impegno per contrastare la progeria e deceduto lo scorso 5 ottobre , che con le sue parole ha voluto esprimere un inno alla vita ed un elogio della speranza.