12-01-2018
Esequie di mons. Alessandro Trecci – Chiesa di San Paolo Apostolo, 12 gennaio 2018
Molte volte e in diversi modi don Alessandro mi ha dato istruzioni per il suo funerale. Negli ultimi tempi mi ripeteva: “Aspetto la morte come un bambino attende un regalo”; “quando verrà l’ora della sepoltura, non dica che don Alessandro è partito, piuttosto sottolinei che è arrivato”. Mi ha anche ammonito di non tenere l’omelia; rispetto la sua volontà lasciando la parola a lui, condividendo qualche “assaggio” di una delle lettere che mi ha inviato. Quella che sto per leggere porta la data del 21 novembre 2010, festa di Cristo Re.
“Dovessi spiegare perché sono nato il 18 agosto 1914 e per quale motivo, dirò che sono venuto al mondo per sostituire un altro bambino, che era nato e subito ripartito, nella casa dei miei genitori. Questi erano partiti insieme con un progetto: un figlio ogni quattro anni. Nel 1909 era nato il primo; nel 1913 due gemelli. Ma questi, subito battezzati, perché in evidenti difficoltà, dopo tre giorni erano partiti per il cielo. Per colmare il vuoto lasciato in quella casa aperta alla vita, un anno dopo sono nato io, rompendo il progetto della distanza. Io sono nato in casa, come si usava allora. Nel momento in cui l’ultimo grido di mia madre in travaglio mi introduceva nell’aria pesante di quell’afoso agosto, mio padre si precipitò lungo le scale di casa per portare il gioioso annuncio a un piccolo gruppo di donne del vicinato, in amichevole attesa dell’evento. Io sono nato all’Aquila e, in quel momento, da tutti i campanili della città si diffondevano nell’aria lenti rintocchi di campane e quelle donne sembrava che stessero pregando. Così, mentre mio padre gridava: ‘è nato un bambino’, qualcuno disse: ‘le campane suonano, perché il Papa – Pio X – sta morendo’. Ma la lieta notizia prevaleva in breve su quella triste e fu un momento di gioia per tutte, perché la vita vince sempre sulla morte e quel minuscolo Alessandro sembrava compensare il vuoto, che quel grande Pontefice lasciava dietro di sé. Evidentemente, si trattava dei sentimenti della gente semplice, che si incontra davanti al miracolo della vita senza valutare la differenza – nel mio caso, enorme – tra un papa che muore e un bambino, piccolo piccolo, che ne prende il posto nell’anagrafe del mondo. Oggi penso, senza presunzione: moriva un papa e nasceva un prete, destinato al secondo (nel manoscritto c’è una correzione, aveva scritto primo!), invidiabile gradino della scala gerarchica. Sono passati tanti anni – 96 – e quel tenero virgulto è diventato un grosso albero, che sotto il vento di un autunno inoltrato lascia cadere, giorno dopo giorno, le ultime foglie gialle, secche e accartocciate. Mentre scrivo, i miei occhi, che hanno contemplato splendide aurore e infuocati tramonti, vagano al di là della finestra verso un pesante cumulo di nubi, che tingono di grigio il panorama, su cui è tramontata, inesorabilmente, la breve estate di San Martino. E strani pensieri si affollano e si rincorrono nei meandri della mia testa, come alla ricerca di una piccola zona di luce, dove fermarsi e riposare.
La speranza, che accompagna il cammino dell’umanità, non può essere chiusa nel tempo, perché sarebbe destinata a morire col tempo; c’è una speranza, dono di Dio, che sorvola il tempo e punta verso un traguardo, oltre il quale c’è, per l’uomo, la pienezza e la stabilità eterna della vita (…). È, per me, un meraviglioso dono di Dio rifugiarmi in questa oasi di luce, mentre i progetti e le attese, che illuminarono l’inizio del mio cammino nella vita, appartengono del tutto al passato, dispersi negli affaticanti solchi, tracciati e seminati in una lunga giornata di lavoro. Ma io sono ancora cittadino del mondo e sono sacerdote a servizio di una Chiesa, il cui ampio respiro ha bisogno anche di quello, un po’ affannoso, di un vecchio operaio, che non si rassegna a chiedere la pensione. So che c’è, per me, l’agguato del male oscuro, ma, se la mente è ancora lucida, pur costretto a muovermi solo a piccoli passi, posso ancora parlare e scrivere (…). Si dice, giustamente, che una lunga esperienza di vita, come la mia, quando tra evidenti forme di decadenza pare che esista una sufficiente lucidità mentale, finisce per renderci saggi, cioè persone capaci di leggere e di interpretare i segni del tempo. La mia saggezza è discutibile, perché quello che penso sta sempre tra la verità, accolta e posseduta con serena chiarezza, e qualche punto di vista personale (…). Fa un po’ male sentirsi dire da qualche giovane amico: ‘Sei vecchio e non puoi capire’. Certo, pensando ai grandi valori, non negoziabili, che ho visto decadere progressivamente fino a non ritrovarli più nella mentalità e nei comportamenti di questo tempo, io mi allineo con Gesù, che piange, contemplando la vacillante pietra del tempio; ma non alzerò la voce e non manovrerò uno scudiscio, per colpire e per disperdere coloro che vorrebbero impedire alla Chiesa di essere ciò che è e di compiere la sua missione, che la qualifica come coscienza del mondo. Per questo, non mi offendo quando qualcuno mi considera un ‘conservatore’ perché, mentre piango per la decadenza spirituale e morale del mio mondo, sono sempre pronto ad applaudire con entusiasmo alle conquiste di un incredibile progresso della scienza. Io amo appassionatamente la Chiesa, mia madre, e mi accade spesso di immaginarla avvolta in una candida veste, che esalta la sua bellezza. Ma poi mi ricredo, perché non posso identificarla con la sua parte migliore, quella che è in cielo (…). La veste della Chiesa, che vive il suo momento terreno, non è candida, perché è formata da noi, che siamo deboli e fragili, e c’è sempre qualcuno, o forse tutti, che la coprono di polvere, la imbrattano di fango e di macchie oscure, e provano perfino a lacerarla. Oggi, come sempre nella sua lunga storia, la Chiesa deve attraversare la grande tribolazione, in attesa di essere aggregata a quella moltitudine immensa, che avvolge il trono dell’Agnello in un festoso vaneggiare di splendide vesti, talmente splendenti e così bianche – direbbe Marco – che nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così”.
Carissimo don Alessandro, in questa liturgia esequiale ti lasciamo avvolgere dall’Agnello, che ti concederà di indossare come veste bianca il camice dell’ordinazione presbiterale, perché lo hai conservato splendido, senza macchia, fino alla fine!
Molte volte e in diversi modi don Alessandro mi ha dato istruzioni per il suo funerale. Negli ultimi tempi mi ripeteva: “Aspetto la morte come un bambino attende un regalo”; “quando verrà l’ora della sepoltura, non dica che don Alessandro è partito, piuttosto sottolinei che è arrivato”. Mi ha anche ammonito di non tenere l’omelia; rispetto la sua volontà lasciando la parola a lui, condividendo qualche “assaggio” di una delle lettere che mi ha inviato. Quella che sto per leggere porta la data del 21 novembre 2010, festa di Cristo Re.
“Dovessi spiegare perché sono nato il 18 agosto 1914 e per quale motivo, dirò che sono venuto al mondo per sostituire un altro bambino, che era nato e subito ripartito, nella casa dei miei genitori. Questi erano partiti insieme con un progetto: un figlio ogni quattro anni. Nel 1909 era nato il primo; nel 1913 due gemelli. Ma questi, subito battezzati, perché in evidenti difficoltà, dopo tre giorni erano partiti per il cielo. Per colmare il vuoto lasciato in quella casa aperta alla vita, un anno dopo sono nato io, rompendo il progetto della distanza. Io sono nato in casa, come si usava allora. Nel momento in cui l’ultimo grido di mia madre in travaglio mi introduceva nell’aria pesante di quell’afoso agosto, mio padre si precipitò lungo le scale di casa per portare il gioioso annuncio a un piccolo gruppo di donne del vicinato, in amichevole attesa dell’evento. Io sono nato all’Aquila e, in quel momento, da tutti i campanili della città si diffondevano nell’aria lenti rintocchi di campane e quelle donne sembrava che stessero pregando. Così, mentre mio padre gridava: ‘è nato un bambino’, qualcuno disse: ‘le campane suonano, perché il Papa – Pio X – sta morendo’. Ma la lieta notizia prevaleva in breve su quella triste e fu un momento di gioia per tutte, perché la vita vince sempre sulla morte e quel minuscolo Alessandro sembrava compensare il vuoto, che quel grande Pontefice lasciava dietro di sé. Evidentemente, si trattava dei sentimenti della gente semplice, che si incontra davanti al miracolo della vita senza valutare la differenza – nel mio caso, enorme – tra un papa che muore e un bambino, piccolo piccolo, che ne prende il posto nell’anagrafe del mondo. Oggi penso, senza presunzione: moriva un papa e nasceva un prete, destinato al secondo (nel manoscritto c’è una correzione, aveva scritto primo!), invidiabile gradino della scala gerarchica. Sono passati tanti anni – 96 – e quel tenero virgulto è diventato un grosso albero, che sotto il vento di un autunno inoltrato lascia cadere, giorno dopo giorno, le ultime foglie gialle, secche e accartocciate. Mentre scrivo, i miei occhi, che hanno contemplato splendide aurore e infuocati tramonti, vagano al di là della finestra verso un pesante cumulo di nubi, che tingono di grigio il panorama, su cui è tramontata, inesorabilmente, la breve estate di San Martino. E strani pensieri si affollano e si rincorrono nei meandri della mia testa, come alla ricerca di una piccola zona di luce, dove fermarsi e riposare.
La speranza, che accompagna il cammino dell’umanità, non può essere chiusa nel tempo, perché sarebbe destinata a morire col tempo; c’è una speranza, dono di Dio, che sorvola il tempo e punta verso un traguardo, oltre il quale c’è, per l’uomo, la pienezza e la stabilità eterna della vita (…). È, per me, un meraviglioso dono di Dio rifugiarmi in questa oasi di luce, mentre i progetti e le attese, che illuminarono l’inizio del mio cammino nella vita, appartengono del tutto al passato, dispersi negli affaticanti solchi, tracciati e seminati in una lunga giornata di lavoro. Ma io sono ancora cittadino del mondo e sono sacerdote a servizio di una Chiesa, il cui ampio respiro ha bisogno anche di quello, un po’ affannoso, di un vecchio operaio, che non si rassegna a chiedere la pensione. So che c’è, per me, l’agguato del male oscuro, ma, se la mente è ancora lucida, pur costretto a muovermi solo a piccoli passi, posso ancora parlare e scrivere (…). Si dice, giustamente, che una lunga esperienza di vita, come la mia, quando tra evidenti forme di decadenza pare che esista una sufficiente lucidità mentale, finisce per renderci saggi, cioè persone capaci di leggere e di interpretare i segni del tempo. La mia saggezza è discutibile, perché quello che penso sta sempre tra la verità, accolta e posseduta con serena chiarezza, e qualche punto di vista personale (…). Fa un po’ male sentirsi dire da qualche giovane amico: ‘Sei vecchio e non puoi capire’. Certo, pensando ai grandi valori, non negoziabili, che ho visto decadere progressivamente fino a non ritrovarli più nella mentalità e nei comportamenti di questo tempo, io mi allineo con Gesù, che piange, contemplando la vacillante pietra del tempio; ma non alzerò la voce e non manovrerò uno scudiscio, per colpire e per disperdere coloro che vorrebbero impedire alla Chiesa di essere ciò che è e di compiere la sua missione, che la qualifica come coscienza del mondo. Per questo, non mi offendo quando qualcuno mi considera un ‘conservatore’ perché, mentre piango per la decadenza spirituale e morale del mio mondo, sono sempre pronto ad applaudire con entusiasmo alle conquiste di un incredibile progresso della scienza. Io amo appassionatamente la Chiesa, mia madre, e mi accade spesso di immaginarla avvolta in una candida veste, che esalta la sua bellezza. Ma poi mi ricredo, perché non posso identificarla con la sua parte migliore, quella che è in cielo (…). La veste della Chiesa, che vive il suo momento terreno, non è candida, perché è formata da noi, che siamo deboli e fragili, e c’è sempre qualcuno, o forse tutti, che la coprono di polvere, la imbrattano di fango e di macchie oscure, e provano perfino a lacerarla. Oggi, come sempre nella sua lunga storia, la Chiesa deve attraversare la grande tribolazione, in attesa di essere aggregata a quella moltitudine immensa, che avvolge il trono dell’Agnello in un festoso vaneggiare di splendide vesti, talmente splendenti e così bianche – direbbe Marco – che nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così”.
Carissimo don Alessandro, in questa liturgia esequiale ti lasciamo avvolgere dall’Agnello, che ti concederà di indossare come veste bianca il camice dell’ordinazione presbiterale, perché lo hai conservato splendido, senza macchia, fino alla fine!
+ Gualtiero Sigismondi