25-12-2017
Natale del Signore – Messa del giorno
“Il Salvatore, il Messia, il Gesù di Betlemme è il Verbo di Dio fatto uomo. Cadiamo in ginocchio. La meraviglia non ha confine. L’adorazione non ha sufficiente umiltà. La gioia non ha parole bastevoli”. Queste parole pronunciate da Giovanni Battista Montini, Arcivescovo di Milano, il giorno di Natale del 1955 mi vengono in soccorso e mi aiutano a dare voce all’esultanza della Chiesa che oggi amplifica il coro degli angeli: Gloria in excelsis Deo (cf. Lc 2,14). Noi possiamo solo adorare e ringraziare per il dispiegarsi di questo mirabile disegno di misericordia, che ha sollevato l’uomo dalla sua caduta, innalzandolo oltre l’antico splendore. “Gesù volle essere Bambino – assicura Sant’Ambrogio – perché tu potessi crescere come uomo perfetto; fu avvolto in fasce perché tu fossi sciolto dai lacci della morte; fu deposto in una stalla perché tu raggiungessi le stelle; non trovò posto nell’albergo perché tu avessi un posto in cielo. Egli ha scelto per sé la povertà per donare a tutti la sua ricchezza”.
“Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce” (Lc 2,11-12). Per ben due volte Luca pone l’accento sul “per voi”, allo scopo di sottolineare che il Figlio di Dio è disceso dal cielo “per noi uomini e per la nostra salvezza”. La disarmante semplicità di un Bambino, “adagiato in una mangiatoia” (Lc 2,12), rivela il disegno della salvezza: i segni di Dio fanno sempre sognare l’uomo peccatore! La tradizione cristiana ha voluto mettere accanto a Gesù bambino il bue e l’asinello, due animali con cui il profeta Isaia inizia il suo libro, contrapponendo la loro mansuetudine alla ribellione di Israele: “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende” (Is 1,3). L’iconografia non li ha legati a un giogo, non ha posto una soma sul loro dorso: ce li ha donati a riposo. Posti accanto alla mangiatoia, non ingombrano la scena della natività ma la riscaldano: l’asino annuncia l’ingresso di Gesù in Gerusalemme (cf. Gv 12,14); il bue, impegnato a ruminare, lascia intendere cosa voglia dire custodire e meditare la Parola (cf. Lc 2,19).
“A Betlemme – scrive San Pier Giuliano Eymard – come il chicco di frumento caduto nella terra, Gesù germina e cresce; maturerà a Nazareth, nel calore della sua obbedienza al Padre; sarà mietuto nel mistero della sua Passione per diventare Pane incorruttibile e immortale attraverso il fuoco del Calvario”. La strada fra Betlemme e il Calvario è ripida, porta alla Croce; anche nella trama della liturgia è drammaticamente breve, un giorno appena; la memoria del primo martire, Stefano, dissolve una falsa immagine del Natale: quella fiabesca e sdolcinata, che nel Vangelo non esiste. Il Tempo di Natale ha, dunque, un forte accento pasquale, a cui fa esplicito riferimento tanto la solennità dell’Epifania, con l’annuncio del giorno della Pasqua, quanto la festa della Presentazione del Signore, che chiude le celebrazioni natalizie e apre il cammino verso il Mistero pasquale con l’offerta della Vergine e la profezia di Simeone (cf. Lc 2,33-35). In alcune raffigurazioni iconografiche, tanto dell’Occidente quanto dell’Oriente – ad esempio l’icona della Natività di Andrej Rublëv – Gesù bambino non appare adagiato in una culla, bensì deposto in un sepolcro. L’immagine, che intende collegare le due principali feste cristiane – il Natale e la Pasqua –, mostra che accanto all’accoglienza gioiosa per la nuova nascita vi è tutto il dramma di cui Gesù è oggetto, disprezzato e reietto fino alla morte in Croce. La nascita di Gesù a Betlemme già annuncia la realtà del rifiuto (cf. Lc 2,7), che si consumerà a Gerusalemme (cf. Gv 1,10-11).
L’ora della “pienezza del tempo” (cf. Gal 4,4), in cui “l’Eterno incrocia l’istante”, “porta la salvezza a tutti gli uomini” (Tt 2,11). Ciò che stupisce gli angeli, a Betlemme, è la capacità di Dio di adottare il tempo come unità di misura della sua fedeltà. La nascita di Gesù rende manifesto quanto osserva Papa Francesco: “Il tempo è superiore allo spazio”. A Natale il cielo, squarciandosi, investe la terra, l’avvolge nelle “fasce” della divina misericordia e ci insegna che lo strumento di misurazione della carità non è la bilancia ma la clessidra. A che servirebbe distribuire ciò che si crede di possedere se non si fosse disposti a condividere il proprio tempo, che è l’investimento più sicuro per l’eternità? Una delle giustificazioni più insopportabili della durezza di cuore è dire: “Non ho tempo”. La generosità non è gratuita se non matura gli interessi che solo il tempo offerto in dono può accreditare sul conto sempre aperto della carità, che “non avrà mai fine” (1Cor 13,8).
“Il Salvatore, il Messia, il Gesù di Betlemme è il Verbo di Dio fatto uomo. Cadiamo in ginocchio. La meraviglia non ha confine. L’adorazione non ha sufficiente umiltà. La gioia non ha parole bastevoli”. Queste parole pronunciate da Giovanni Battista Montini, Arcivescovo di Milano, il giorno di Natale del 1955 mi vengono in soccorso e mi aiutano a dare voce all’esultanza della Chiesa che oggi amplifica il coro degli angeli: Gloria in excelsis Deo (cf. Lc 2,14). Noi possiamo solo adorare e ringraziare per il dispiegarsi di questo mirabile disegno di misericordia, che ha sollevato l’uomo dalla sua caduta, innalzandolo oltre l’antico splendore. “Gesù volle essere Bambino – assicura Sant’Ambrogio – perché tu potessi crescere come uomo perfetto; fu avvolto in fasce perché tu fossi sciolto dai lacci della morte; fu deposto in una stalla perché tu raggiungessi le stelle; non trovò posto nell’albergo perché tu avessi un posto in cielo. Egli ha scelto per sé la povertà per donare a tutti la sua ricchezza”.
“Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce” (Lc 2,11-12). Per ben due volte Luca pone l’accento sul “per voi”, allo scopo di sottolineare che il Figlio di Dio è disceso dal cielo “per noi uomini e per la nostra salvezza”. La disarmante semplicità di un Bambino, “adagiato in una mangiatoia” (Lc 2,12), rivela il disegno della salvezza: i segni di Dio fanno sempre sognare l’uomo peccatore! La tradizione cristiana ha voluto mettere accanto a Gesù bambino il bue e l’asinello, due animali con cui il profeta Isaia inizia il suo libro, contrapponendo la loro mansuetudine alla ribellione di Israele: “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende” (Is 1,3). L’iconografia non li ha legati a un giogo, non ha posto una soma sul loro dorso: ce li ha donati a riposo. Posti accanto alla mangiatoia, non ingombrano la scena della natività ma la riscaldano: l’asino annuncia l’ingresso di Gesù in Gerusalemme (cf. Gv 12,14); il bue, impegnato a ruminare, lascia intendere cosa voglia dire custodire e meditare la Parola (cf. Lc 2,19).
“A Betlemme – scrive San Pier Giuliano Eymard – come il chicco di frumento caduto nella terra, Gesù germina e cresce; maturerà a Nazareth, nel calore della sua obbedienza al Padre; sarà mietuto nel mistero della sua Passione per diventare Pane incorruttibile e immortale attraverso il fuoco del Calvario”. La strada fra Betlemme e il Calvario è ripida, porta alla Croce; anche nella trama della liturgia è drammaticamente breve, un giorno appena; la memoria del primo martire, Stefano, dissolve una falsa immagine del Natale: quella fiabesca e sdolcinata, che nel Vangelo non esiste. Il Tempo di Natale ha, dunque, un forte accento pasquale, a cui fa esplicito riferimento tanto la solennità dell’Epifania, con l’annuncio del giorno della Pasqua, quanto la festa della Presentazione del Signore, che chiude le celebrazioni natalizie e apre il cammino verso il Mistero pasquale con l’offerta della Vergine e la profezia di Simeone (cf. Lc 2,33-35). In alcune raffigurazioni iconografiche, tanto dell’Occidente quanto dell’Oriente – ad esempio l’icona della Natività di Andrej Rublëv – Gesù bambino non appare adagiato in una culla, bensì deposto in un sepolcro. L’immagine, che intende collegare le due principali feste cristiane – il Natale e la Pasqua –, mostra che accanto all’accoglienza gioiosa per la nuova nascita vi è tutto il dramma di cui Gesù è oggetto, disprezzato e reietto fino alla morte in Croce. La nascita di Gesù a Betlemme già annuncia la realtà del rifiuto (cf. Lc 2,7), che si consumerà a Gerusalemme (cf. Gv 1,10-11).
L’ora della “pienezza del tempo” (cf. Gal 4,4), in cui “l’Eterno incrocia l’istante”, “porta la salvezza a tutti gli uomini” (Tt 2,11). Ciò che stupisce gli angeli, a Betlemme, è la capacità di Dio di adottare il tempo come unità di misura della sua fedeltà. La nascita di Gesù rende manifesto quanto osserva Papa Francesco: “Il tempo è superiore allo spazio”. A Natale il cielo, squarciandosi, investe la terra, l’avvolge nelle “fasce” della divina misericordia e ci insegna che lo strumento di misurazione della carità non è la bilancia ma la clessidra. A che servirebbe distribuire ciò che si crede di possedere se non si fosse disposti a condividere il proprio tempo, che è l’investimento più sicuro per l’eternità? Una delle giustificazioni più insopportabili della durezza di cuore è dire: “Non ho tempo”. La generosità non è gratuita se non matura gli interessi che solo il tempo offerto in dono può accreditare sul conto sempre aperto della carità, che “non avrà mai fine” (1Cor 13,8).
+ Gualtiero Sigismondi