24-09-2017
Festa della Chiesa diocesana – Santuario della Madonna del Pianto, 24 settembre 2017
Fratelli carissimi, nel Vangelo di questa domenica (cf. Mt 20,1-16a), Gesù racconta la parabola del padrone della vigna che a diverse ore del giorno chiama operai al suo servizio. Questa parabola è certamente una delle più paradossali del Vangelo: essa può essere commentata con le parole che il Signore rivolge a Isaia: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is 55,8-9).
“Andate anche voi nella mia vigna” (20,4): così si rivolge il padrone a quelli che alle nove del mattino “stavano in piazza, disoccupati” (20,3). Anche a quelli delle cinque dice: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza fare niente?” (20,6). La risposta giunge immediata e sembra dare voce a quanti, soprattutto giovani, soffrono la mancanza di lavoro: “Nessuno ci ha presi a giornata” (20,7). Il cuore della parabola è il momento della paga, in cui il fattore, su incarico del padrone, comincia da quelli che hanno lavorato un’ora soltanto, dando loro lo stesso salario pattuito con gli operai assunti all’alba. Con questa scelta il padrone non è ingiusto, ma prodigo con tutti. I braccianti che mormorano sono soggiogati dall’idea della ricompensa: accecati dall’invidia non riescono a comprendere la bontà di quel gesto di generosità.
Fratelli carissimi, questa parabola ci mette di fronte alla libertà di Dio, alla gratuità della sua infinita misericordia che non calcola ma dona; quel denaro, assicurato a quanti hanno lavorato nella sua vigna anche solo un’ora, rappresenta la vita eterna, che non è un salario da guadagnare o un’eredità da meritare. L’essere invitati a prestare servizio nella vigna del Signore costituisce di per sé una grazia. Di questo singolare privilegio è consapevole Paolo che, chiamato a prendere parte all’opera del Vangelo “verso mezzogiorno” (cf. At 22,6), esprime la sua profonda gratitudine dicendo: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21). Messo alle strette dalla persecuzione egli confessa di non sapere se preferire il martirio: “Se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere” (Fil 1,22).
“Lavorare con frutto”: questo è il compito a cui siamo chiamati in una stagione ecclesiale segnata da “dure prove e stimolanti avventure”. La Chiesa non ha bisogno di progetti o di piani pastorali ma di “cittadini degni del Vangelo” (cf. Fil 1,27) che, come San Paolo, possano testimoniare in spirito e verità: “Per me il vivere è Cristo”. La Chiesa ha necessità di famiglie e di comunità parrocchiali che, con entusiasmo sincero, “sentano il dovere di rigenerare la vita ecclesiale”. Stimolante, al riguardo, è il discorso tenuto da Papa Francesco, il 7 settembre 2017, al Comitato direttivo della Conferenza dell’Episcopato latino-americano – Celam. Si tratta di un testo da meditare e da approfondire sinodalmente.
“La rinnovata consapevolezza – osserva il Papa – che all’inizio di tutto c’è sempre l’incontro con Cristo vivo richiede che i discepoli coltivino la familiarità con Lui; diversamente il volto del Signore si offusca, la missione perde forza, la conversione pastorale retrocede. Pregare e coltivare il rapporto con Lui è, pertanto, l’attività più improrogabile della nostra missione pastorale. Ai suoi discepoli entusiasti della missione compiuta, Gesù disse: ‘Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto’ (Mc 6,31). Noi abbiamo ancora più bisogno di questo stare soli con il Signore per ritrovare il cuore della missione della Chiesa nelle attuali circostanze. C’è tanta dispersione interiore e anche esteriore! I numerosi eventi, la frammentazione della realtà, l’istantaneità e la velocità del presente, potrebbero farci cadere nella dispersione e nel vuoto. Ritrovare l’unità è un imperativo. Dove si trova l’unità? Sempre in Gesù. Ciò che rende permanente la missione non è l’entusiasmo che infiamma il cuore generoso del missionario, benché sempre necessario; piuttosto è la compagnia di Gesù mediante il suo Spirito. Se non partiamo con Lui in missione, ben presto perderemo la strada, rischiando di confondere le nostre vane necessità con la sua causa. Se la ragione del nostro andare non è Lui, sarà facile scoraggiarsi in mezzo alla fatica del cammino, o di fronte alla resistenza dei destinatari della missione, o davanti ai mutevoli scenari delle circostanze che segnano la storia, o per la stanchezza dei piedi dovuta all’insidioso logorio provocato dal nemico (…). Che cosa significa concretamente andare con Gesù? L’avverbio concretamente non è un dettaglio stilistico, ma appartiene al nucleo della domanda. Il Vangelo è sempre concreto, mai un esercizio di sterili speculazioni. Conosciamo bene la ricorrente tentazione di perdersi nel bizantinismo dei dottori della legge, di domandarsi fino a che punto si può arrivare senza perdere il controllo del proprio territorio delimitato o del presunto potere che i limiti garantiscono. Molto si è detto circa la Chiesa in stato permanente di missione. Uscire, partire con Gesù è la condizione di questa realtà (…). Il Vangelo parla di Gesù che, essendo uscito dal Padre, percorre con i suoi i campi e i villaggi di Galilea. Non si tratta di un percorso inutile del Signore. Mentre cammina, incontra; quando incontra, si avvicina; quando si avvicina, parla; quando parla, tocca col suo potere; quando tocca, cura e salva. Condurre al Padre coloro che incontra è la meta del suo permanente uscire, sul quale dobbiamo riflettere continuamente e fare un esame di coscienza. La Chiesa deve riappropriarsi dei verbi che il Verbo di Dio coniuga nella sua missione divina. Uscire per incontrare, senza passare oltre; chinarsi senza noncuranza; toccare senza paura. Si tratta di mettersi giorno per giorno nel lavoro sul campo, lì dove vive il popolo di Dio (…). La missione si realizza sempre in un corpo a corpo”.
Fratelli carissimi, il Signore ci conceda di ravvivare la gioia di alzare gli occhi e di vedere i “grappoli maturi” e “i campi che già biondeggiano” (cf. Gv 4,35). Nella “casa di Dio che è la Chiesa” (cf. 1Tm 3,15) non c’è spazio per i pavidi, ma solo per i “ribelli alla mediocrità”; nella navicula Petri non c’è posto per i passeggeri, ma soltanto per un equipaggio affiatato.
Fratelli carissimi, nel Vangelo di questa domenica (cf. Mt 20,1-16a), Gesù racconta la parabola del padrone della vigna che a diverse ore del giorno chiama operai al suo servizio. Questa parabola è certamente una delle più paradossali del Vangelo: essa può essere commentata con le parole che il Signore rivolge a Isaia: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is 55,8-9).
“Andate anche voi nella mia vigna” (20,4): così si rivolge il padrone a quelli che alle nove del mattino “stavano in piazza, disoccupati” (20,3). Anche a quelli delle cinque dice: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza fare niente?” (20,6). La risposta giunge immediata e sembra dare voce a quanti, soprattutto giovani, soffrono la mancanza di lavoro: “Nessuno ci ha presi a giornata” (20,7). Il cuore della parabola è il momento della paga, in cui il fattore, su incarico del padrone, comincia da quelli che hanno lavorato un’ora soltanto, dando loro lo stesso salario pattuito con gli operai assunti all’alba. Con questa scelta il padrone non è ingiusto, ma prodigo con tutti. I braccianti che mormorano sono soggiogati dall’idea della ricompensa: accecati dall’invidia non riescono a comprendere la bontà di quel gesto di generosità.
Fratelli carissimi, questa parabola ci mette di fronte alla libertà di Dio, alla gratuità della sua infinita misericordia che non calcola ma dona; quel denaro, assicurato a quanti hanno lavorato nella sua vigna anche solo un’ora, rappresenta la vita eterna, che non è un salario da guadagnare o un’eredità da meritare. L’essere invitati a prestare servizio nella vigna del Signore costituisce di per sé una grazia. Di questo singolare privilegio è consapevole Paolo che, chiamato a prendere parte all’opera del Vangelo “verso mezzogiorno” (cf. At 22,6), esprime la sua profonda gratitudine dicendo: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21). Messo alle strette dalla persecuzione egli confessa di non sapere se preferire il martirio: “Se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere” (Fil 1,22).
“Lavorare con frutto”: questo è il compito a cui siamo chiamati in una stagione ecclesiale segnata da “dure prove e stimolanti avventure”. La Chiesa non ha bisogno di progetti o di piani pastorali ma di “cittadini degni del Vangelo” (cf. Fil 1,27) che, come San Paolo, possano testimoniare in spirito e verità: “Per me il vivere è Cristo”. La Chiesa ha necessità di famiglie e di comunità parrocchiali che, con entusiasmo sincero, “sentano il dovere di rigenerare la vita ecclesiale”. Stimolante, al riguardo, è il discorso tenuto da Papa Francesco, il 7 settembre 2017, al Comitato direttivo della Conferenza dell’Episcopato latino-americano – Celam. Si tratta di un testo da meditare e da approfondire sinodalmente.
“La rinnovata consapevolezza – osserva il Papa – che all’inizio di tutto c’è sempre l’incontro con Cristo vivo richiede che i discepoli coltivino la familiarità con Lui; diversamente il volto del Signore si offusca, la missione perde forza, la conversione pastorale retrocede. Pregare e coltivare il rapporto con Lui è, pertanto, l’attività più improrogabile della nostra missione pastorale. Ai suoi discepoli entusiasti della missione compiuta, Gesù disse: ‘Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto’ (Mc 6,31). Noi abbiamo ancora più bisogno di questo stare soli con il Signore per ritrovare il cuore della missione della Chiesa nelle attuali circostanze. C’è tanta dispersione interiore e anche esteriore! I numerosi eventi, la frammentazione della realtà, l’istantaneità e la velocità del presente, potrebbero farci cadere nella dispersione e nel vuoto. Ritrovare l’unità è un imperativo. Dove si trova l’unità? Sempre in Gesù. Ciò che rende permanente la missione non è l’entusiasmo che infiamma il cuore generoso del missionario, benché sempre necessario; piuttosto è la compagnia di Gesù mediante il suo Spirito. Se non partiamo con Lui in missione, ben presto perderemo la strada, rischiando di confondere le nostre vane necessità con la sua causa. Se la ragione del nostro andare non è Lui, sarà facile scoraggiarsi in mezzo alla fatica del cammino, o di fronte alla resistenza dei destinatari della missione, o davanti ai mutevoli scenari delle circostanze che segnano la storia, o per la stanchezza dei piedi dovuta all’insidioso logorio provocato dal nemico (…). Che cosa significa concretamente andare con Gesù? L’avverbio concretamente non è un dettaglio stilistico, ma appartiene al nucleo della domanda. Il Vangelo è sempre concreto, mai un esercizio di sterili speculazioni. Conosciamo bene la ricorrente tentazione di perdersi nel bizantinismo dei dottori della legge, di domandarsi fino a che punto si può arrivare senza perdere il controllo del proprio territorio delimitato o del presunto potere che i limiti garantiscono. Molto si è detto circa la Chiesa in stato permanente di missione. Uscire, partire con Gesù è la condizione di questa realtà (…). Il Vangelo parla di Gesù che, essendo uscito dal Padre, percorre con i suoi i campi e i villaggi di Galilea. Non si tratta di un percorso inutile del Signore. Mentre cammina, incontra; quando incontra, si avvicina; quando si avvicina, parla; quando parla, tocca col suo potere; quando tocca, cura e salva. Condurre al Padre coloro che incontra è la meta del suo permanente uscire, sul quale dobbiamo riflettere continuamente e fare un esame di coscienza. La Chiesa deve riappropriarsi dei verbi che il Verbo di Dio coniuga nella sua missione divina. Uscire per incontrare, senza passare oltre; chinarsi senza noncuranza; toccare senza paura. Si tratta di mettersi giorno per giorno nel lavoro sul campo, lì dove vive il popolo di Dio (…). La missione si realizza sempre in un corpo a corpo”.
Fratelli carissimi, il Signore ci conceda di ravvivare la gioia di alzare gli occhi e di vedere i “grappoli maturi” e “i campi che già biondeggiano” (cf. Gv 4,35). Nella “casa di Dio che è la Chiesa” (cf. 1Tm 3,15) non c’è spazio per i pavidi, ma solo per i “ribelli alla mediocrità”; nella navicula Petri non c’è posto per i passeggeri, ma soltanto per un equipaggio affiatato.
+ Gualtiero Sigismondi