19-06-2016
Santuario di San Damiano – Assisi, 19 giugno 2016
“Guarderanno a me, colui che hanno trafitto” (Zc 12,10): questo oracolo profetico, che san Giovanni apostolo riferisce a Cristo (Gv 19,37; Ap 1,7), ci raggiunge attraverso la liturgia come un provvidenziale raggio di luce, mentre i nostri occhi contemplano il Crocifisso di San Damiano nello stesso luogo in cui risuona l’eco della sua voce: “Francesco, va’ e ripara la mia chiesa che, come vedi, è tutta in rovina!”. Davanti a questa immagine anche il brano evangelico appena proclamato sembra ritrovare il suo ambiente vitale. Gesù, dopo aver chiesto ai discepoli quale sia l’opinione della folla su di Lui, domanda loro: “Ma voi, chi dite che io sia?” (Lc 9,20). A questo interrogativo Pietro risponde prontamente, acclamando: “Il Cristo di Dio”. Superato brillantemente l’esame di teoria, Gesù indica ai discepoli le condizioni per affrontare l’esame di pratica: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23).
Fratelli carissimi, si diventa adulti nella fede quando si scopre che non è bene “tenere per sé la propria vita” (cf. Mt 10,39) e si inizia a compiere la delicata manovra del distacco persino da se stessi (cf. Lc 14,25-35). San Bonaventura, nella Leggenda maggiore (cf. FF. n. 1038), narra che questo distacco Francesco d’Assisi ha iniziato a compierlo proprio qui a San Damiano, “fissando gli occhi pieni di lacrime nella croce del Signore”. Qui Francesco, “stupito e tutto tremante, percependo nel cuore la forza del linguaggio divino, si sente rapito fuori dei sensi”. Forse avrà rivolto al Crocifisso la stessa domanda che ha risuonato nel cuore di Saulo lungo la via di Damasco: “Chi sei, o Signore?” (At 22,8). Qui Gesù Crocifisso, chiedendo di riparare la “Sua chiesa”, ha confidato a Francesco di esserne lo Sposo, che “ha dato se stesso per lei” (cf. Ef 5,25-27). Qui il Signore ha domandato a Francesco di mettere mano all’opera di rinnovamento della Chiesa, “secondo la forma del santo Vangelo”, seguendo il “protocollo” della povertà.
“Francesco, va’ e ripara la mia chiesa che, come vedi, è tutta in rovina!”. L’immagine più viva che ritrae questa consegna da parte del Signore è quella delineata da Giotto, il quale, ispirandosi al sogno compiuto da Innocenzo III, raffigura Francesco impegnato a reggere la Basilica del Laterano. L’affresco mostra Francesco che ripara la Chiesa dall’interno: non costruisce un edificio nuovo sopra i ruderi di quello antico; non si limita a mettere in sicurezza l’edificio vecchio ma lo solleva con l’argano della santità, intagliando nella propria carne la colonna portante della povertà. “Nulla tra lui e Dio – scrive Romano Guardini nell’opuscolo dal titolo San Francesco –; di questo è forma la povertà. La sua povertà è libertà. Questa libertà è tuttavia amore”. Interamente riferito a Dio, perfettamente libero per Lui: questa è la povertà vissuta sine glossa da san Francesco, il quale si è spogliato di tutto, persino di se stesso, sperimentando che la povertà è condizione di libertà e testimoniando che la libertà è l’altro nome della povertà.
La spoliazione di san Francesco è avvenuta in tre atti: di fronte alla Cattedrale di San Feliciano in Foligno ha venduto le stoffe e persino il cavallo per riparare la chiesa di San Damiano; davanti a Guido I, Vescovo di Assisi, ha rinunciato a ciò che appesantiva il suo cuore e distoglieva i suoi occhi dal Signore; dinanzi al card. Ugolino ha deposto tutto, trasmettendo la guida dell’Ordine prima a fr. Pietro Cattani e poi a fr. Elia da Cortona. Con questa definitiva spoliazione Francesco ha attuato l’obbedienza nella sua forma più pura, l’obbedienza nuda. “L’esser una cosa sola col Crocifisso – precisa Romano Guardini – adempie qui la sua consequenzialità estrema”.
Fratelli carissimi, la strada del discepolato, benché segua tracciati diversi, ha un passaggio obbligato: il rinnegamento di sé, che non è un’opera di demolizione ma di edificazione, che il Salmista traduce in questi termini: “O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua” (Sal 63,2). Il rinnegamento di sé è un passaggio obbligato, una porta stretta, ma santa, che ha come “architrave” il legno della croce. È presso la croce, “palestra di obbedienza” (cf. Eb 5,8), che si penetra nell’intimità dell’amicizia con Cristo, “fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8). È ai piedi della croce, “spes unica”, che si scopre che “con il fuoco si prova l’oro e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore” (Sir 2,5). È all’ombra della croce, fisica o spirituale, che si tocca con mano che non si è onnipotenti e che il Signore compie quello che si riesce appena a iniziare. È all’incrocio della croce che si sperimenta che la preghiera è un silenzio per dire: “Eccomi”.
Il “giogo” della croce, se lo si rifiuta, sfigura, ma se lo si accoglie trasfigura! Di questo San Damiano custodisce una delle memorie più significative della vita di Francesco d’Assisi Nei primi mesi del 1225 egli si ferma in questo luogo oltre cinquanta giorni, in preda ad atroci sofferenze. Una notte non ce la fa più a sopportare così grandi dolori e invoca il soccorso e la consolazione del Signore, che in spirito gli risponde: “Fratello, rallegrati e gioisci di cuore nelle tue infermità” (Compilatio Assisiensis, 83). Il mattino seguente comincia a comporre il Cantico di frate sole. Quella poesia che invita tutte le creature alla lode di Dio nasce, dunque, in un momento di dolore, eco di un animo pacificato nel profondo, su cui il Signore ha riversato “uno spirito di grazia e di consolazione” (cf. Zc 12,10).
Fratelli carissimi, l’incontro di san Francesco con il Crocifisso di San Damiano è preceduto da quello con il lebbroso (cf. FF. n° 1034): la successione cronologica di questi due episodi lascia intendere che Francesco ha potuto sentire la voce del Signore perché ha saputo scorgere il Suo volto “in quello di coloro con i quali Egli stesso ha voluto identificarsi”. Papa Francesco al n° 281 dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium avverte che “la contemplazione che lascia fuori gli altri è un inganno”. La preghiera cristiana più eleva in alto, più inchioda i piedi a terra, perché educa a “stare con l’orecchio nel cuore di Dio e con la mano nel polso del tempo”.
Fratelli carissimi, si diventa adulti nella fede quando si scopre che non è bene “tenere per sé la propria vita” (cf. Mt 10,39) e si inizia a compiere la delicata manovra del distacco persino da se stessi (cf. Lc 14,25-35). San Bonaventura, nella Leggenda maggiore (cf. FF. n. 1038), narra che questo distacco Francesco d’Assisi ha iniziato a compierlo proprio qui a San Damiano, “fissando gli occhi pieni di lacrime nella croce del Signore”. Qui Francesco, “stupito e tutto tremante, percependo nel cuore la forza del linguaggio divino, si sente rapito fuori dei sensi”. Forse avrà rivolto al Crocifisso la stessa domanda che ha risuonato nel cuore di Saulo lungo la via di Damasco: “Chi sei, o Signore?” (At 22,8). Qui Gesù Crocifisso, chiedendo di riparare la “Sua chiesa”, ha confidato a Francesco di esserne lo Sposo, che “ha dato se stesso per lei” (cf. Ef 5,25-27). Qui il Signore ha domandato a Francesco di mettere mano all’opera di rinnovamento della Chiesa, “secondo la forma del santo Vangelo”, seguendo il “protocollo” della povertà.
“Francesco, va’ e ripara la mia chiesa che, come vedi, è tutta in rovina!”. L’immagine più viva che ritrae questa consegna da parte del Signore è quella delineata da Giotto, il quale, ispirandosi al sogno compiuto da Innocenzo III, raffigura Francesco impegnato a reggere la Basilica del Laterano. L’affresco mostra Francesco che ripara la Chiesa dall’interno: non costruisce un edificio nuovo sopra i ruderi di quello antico; non si limita a mettere in sicurezza l’edificio vecchio ma lo solleva con l’argano della santità, intagliando nella propria carne la colonna portante della povertà. “Nulla tra lui e Dio – scrive Romano Guardini nell’opuscolo dal titolo San Francesco –; di questo è forma la povertà. La sua povertà è libertà. Questa libertà è tuttavia amore”. Interamente riferito a Dio, perfettamente libero per Lui: questa è la povertà vissuta sine glossa da san Francesco, il quale si è spogliato di tutto, persino di se stesso, sperimentando che la povertà è condizione di libertà e testimoniando che la libertà è l’altro nome della povertà.
La spoliazione di san Francesco è avvenuta in tre atti: di fronte alla Cattedrale di San Feliciano in Foligno ha venduto le stoffe e persino il cavallo per riparare la chiesa di San Damiano; davanti a Guido I, Vescovo di Assisi, ha rinunciato a ciò che appesantiva il suo cuore e distoglieva i suoi occhi dal Signore; dinanzi al card. Ugolino ha deposto tutto, trasmettendo la guida dell’Ordine prima a fr. Pietro Cattani e poi a fr. Elia da Cortona. Con questa definitiva spoliazione Francesco ha attuato l’obbedienza nella sua forma più pura, l’obbedienza nuda. “L’esser una cosa sola col Crocifisso – precisa Romano Guardini – adempie qui la sua consequenzialità estrema”.
Fratelli carissimi, la strada del discepolato, benché segua tracciati diversi, ha un passaggio obbligato: il rinnegamento di sé, che non è un’opera di demolizione ma di edificazione, che il Salmista traduce in questi termini: “O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua” (Sal 63,2). Il rinnegamento di sé è un passaggio obbligato, una porta stretta, ma santa, che ha come “architrave” il legno della croce. È presso la croce, “palestra di obbedienza” (cf. Eb 5,8), che si penetra nell’intimità dell’amicizia con Cristo, “fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8). È ai piedi della croce, “spes unica”, che si scopre che “con il fuoco si prova l’oro e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore” (Sir 2,5). È all’ombra della croce, fisica o spirituale, che si tocca con mano che non si è onnipotenti e che il Signore compie quello che si riesce appena a iniziare. È all’incrocio della croce che si sperimenta che la preghiera è un silenzio per dire: “Eccomi”.
Il “giogo” della croce, se lo si rifiuta, sfigura, ma se lo si accoglie trasfigura! Di questo San Damiano custodisce una delle memorie più significative della vita di Francesco d’Assisi Nei primi mesi del 1225 egli si ferma in questo luogo oltre cinquanta giorni, in preda ad atroci sofferenze. Una notte non ce la fa più a sopportare così grandi dolori e invoca il soccorso e la consolazione del Signore, che in spirito gli risponde: “Fratello, rallegrati e gioisci di cuore nelle tue infermità” (Compilatio Assisiensis, 83). Il mattino seguente comincia a comporre il Cantico di frate sole. Quella poesia che invita tutte le creature alla lode di Dio nasce, dunque, in un momento di dolore, eco di un animo pacificato nel profondo, su cui il Signore ha riversato “uno spirito di grazia e di consolazione” (cf. Zc 12,10).
Fratelli carissimi, l’incontro di san Francesco con il Crocifisso di San Damiano è preceduto da quello con il lebbroso (cf. FF. n° 1034): la successione cronologica di questi due episodi lascia intendere che Francesco ha potuto sentire la voce del Signore perché ha saputo scorgere il Suo volto “in quello di coloro con i quali Egli stesso ha voluto identificarsi”. Papa Francesco al n° 281 dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium avverte che “la contemplazione che lascia fuori gli altri è un inganno”. La preghiera cristiana più eleva in alto, più inchioda i piedi a terra, perché educa a “stare con l’orecchio nel cuore di Dio e con la mano nel polso del tempo”.
+ Gualtiero Sigismondi