2° Anniversario della morte di S. E. mons. Giovanni Benedetti, 3 agosto 2019
“Mille anni ai tuoi occhi, Signore, sono come il giorno che è passato, come un turno di veglia nella notte” (Sal 90,4). Queste parole del Salmista, se riferite a mons. Giovanni Benedetti, potrebbero essere così parafrasate: “Cento anni ai tuoi occhi, sono come il giorno che è passato”. Fratelli carissimi, il libro del Qoèlet ci ha ricordato che “tutto è vanità” (1,2). “È vanità e un grande male” non saper contare i nostri giorni (cf. Sal 90,12). “È vanità e un grande male” trascorrere la vita senza “cercare le cose di lassù”. San Paolo ci ha ricordato che occorre “rivolgere il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra” (cf. Col 3,1-2). Non basta pensare alle cose di lassù per acquistare un cuore saggio, ma occorre anzitutto cercarle. Chi pensa alle cose di lassù non necessariamente le cerca: sono il peso degli anni e dei malanni che lo costringono a pensare alle cose di lassù senza cercarle.
Cerca le cose di lassù – avverte Paolo – chi “fa morire ciò che appartiene alla terra. Impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria” (Col 3,5). Gesù, nel Vangelo appena proclamato, mette in guardia dalla cupidigia quell’uomo che gli chiede aiuto per regolare la divisione dell’eredità con suo fratello: “Fate attenzione e tenetevi lontano da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che possiede” (Lc 12,15). La cupidigia insegna a contare i soldi, ma non educa a contare i nostri giorni. Gesù lo sottolinea con disarmante chiarezza raccontando la parabola di quell’uomo ricco che non si preoccupa di condividere quanto ha raccolto, ma costruisce magazzini più grandi nell’illusione di vivere a lungo. La morte lo sorprende all’improvviso e così non può realizzare il suo meschino progetto di vita: “Riposati, mangia, bevi e divertiti” (Lc 12,19).
“Arricchire davanti a Dio”: questa è la regola di vita da osservare diligentemente; arricchisce presso Dio chi non accumula tesori per sé. L’avaro vive da povero e muore ricco, non dormendo tra due guanciali ma sul suo denaro, che lo rende ansioso e inquieto. L’avarizia appesantisce il cuore, ritarda la conversione, impedendo di “arricchire davanti a Dio”. C’è un altro tipo di avarizia, quella dei sentimenti, una cupidigia a cui poco si bada ma dagli esiti altrettanto deleteri. Si ha, infatti, spesso la tentazione di negare al prossimo non tanto i soldi (un gesto di carità talvolta non costa molto e mette in pace la coscienza) quanto piuttosto il tempo dell’ascolto. Tutti, credo, dobbiamo confessare di esserci negati a chi voleva solo sentirci al telefono per avere una parola buona, di aver evitato chi voleva essere ascoltato, di aver rifiutato la compagnia a una persona sola e malata; questa è avarizia meschina.
“Arricchire davanti a Dio” (cf. Lc 12,21): questa regola di vita mons. Benedetti l’ha osservata nel lungo arco della sua esistenza; l’ha osservata fino alla fine, lasciando i suoi beni alla diocesi di Foligno, per le varie necessità pastorali. Anche questo gesto contribuisce a ravvivare il ricordo e la gratitudine che la nostra Chiesa particolare deve a lui e a tutti i pastori che l’hanno guidata. Sfogliando il Chronicon, ho fissato l’attenzione su una pagina che, pur portando la data del 28 febbraio 1975, sembra scritta oggi a Foligno, anziché ieri a Perugia, quando mons. Benedetti, come vescovo ausiliare, non rinunciava a dialogare con un gruppo di cristiani del “dissenso”. “Sono d’accordo con quello che affermano (…). Non sono d’accordo con loro solo quando si considerano la Chiesa, “tutta” la Chiesa, almeno nel senso che il magistero gerarchico dovrebbe governare i fedeli su misura delle loro esigenze e delle loro aspettative. Hanno, cioè, una mentalità che ricopia, a rovescio, la mentalità integrista, che vogliono pur combattere: la combattono con le stesse armi, arrivando agli stessi risultati deleteri. Anche il modo di presentare una verità evangelica diventa antievangelico, se la si proclama con asprezza polemica, quasi fosse un sasso da scagliare contro qualcuno. La stessa croce può essere impugnata come una spada, come purtroppo lo fu anche in altri tempi e si può seguitare fino a farlo anche oggi. Che il cristiano debba combattere perché vinca la Verità, che è Cristo, è indiscutibile. Ma non debbo vincere io servendomi della Verità; al contrario: deve vincere la Verità, servendosi di me. Queste cose ho cercato di far capire a questo gruppo, che ama sinceramente la Chiesa, ma anche l’amore deve esercitare la virtù della prudenza in cose opinabili, e la virtù dell’obbedienza nelle cose di fede”.
+ Gualtiero Sigismondi