03-03-2017
Meditazione dettata agli operatori pastorali, all’inizio della Quaresima 2017
La Quaresima, “segno sacramentale della nostra conversione”, è il momento favorevole per intensificare la vita dello spirito attraverso il digiuno, la preghiera e l’elemosina. “Il luogo in cui cresce la relazione con Cristo è la preghiera, e il frutto più maturo della preghiera è sempre la carità”. La preghiera è il fulcro ma vive la sua centralità se è legata all’elemosina e al digiuno, vale a dire a un rapporto più sobrio con i beni terreni.
Papa Francesco, nel suo messaggio per la Quaresima, invita a meditare la parabola dell’uomo ricco, “vestito di porpora e di lino finissimo”, e del povero, di nome Lazzaro, “coperto di piaghe e bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco” (cf. Lc 16,19-31). L’uomo ricco, che non ha nome, impersona l’uso iniquo delle ricchezze; il povero, al contrario, ha un nome, Lazzaro, abbreviazione di Eleazaro, che significa “Dio aiuta”. “Il povero alla porta del ricco – osserva Papa Francesco – non è un fastidioso ingombro, ma un appello a convertirsi e a cambiare vita. Il primo invito che ci fa questa parabola è quello di aprire la porta del nostro cuore all’altro, perché ogni persona è un dono, sia il nostro vicino sia il povero sconosciuto”. “È proprio della carità – affermava Paolo VI – avere l’intelligenza del dolore altrui, mentre l’egoismo rende insensibili e ciechi”.
La parabola è impietosa nell’evidenziare le contraddizioni in cui si trova il ricco, impegnato a consumare lauti banchetti nella solitudine dello sfarzo (cf. Lc 16,19). La sua vita è prigioniera dell’esteriorità: l’apparenza maschera il vuoto interiore; la ricchezza assume il volto di una illusoria sicurezza. “In lui – rileva Papa Francesco – si intravede drammaticamente la corruzione del peccato, che si realizza in tre momenti successivi: l’amore per il denaro, la vanità e la superbia”. “L’avidità del denaro è la radice di tutti i mali” (1Tm 6,10): è il principale motivo della corruzione, persino della deviazione dalla fede; è la causa scatenante di molti tormenti, in particolare della superbia e del folle orgoglio, da cui scaturisce la collera, grado più basso del degrado morale.
La parte principale della parabola si svolge nell’aldilà: “Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto” (Lc 16,22). Egli, “stando negli inferi fra i tormenti” (Lc 16,23), sperimenta quanto sia vero che “non abbiamo portato nulla nel mondo e nulla possiamo portare via” (1Tm 6,7). L’amarezza di questa scoperta lo spinge a stabilire un dialogo con Abramo, che chiama “padre” (cf. Lc 16,24.27), e a cercare, inutilmente, non tanto indulgenza quanto clemenza. “Solo tra i tormenti dell’aldilà – sottolinea Papa Francesco – il ricco riconosce Lazzaro e vorrebbe che gli alleviasse le sue sofferenze con un po’ d’acqua”. Ma Abramo gli spiega che i tormenti sono il salario di una vita consegnata al denaro (cf. Lc 16,25) e, soprattutto, gli ricorda che un limite invalicabile, “un grande abisso”, lo separa per sempre da Lazzaro (cf. Lc 16,26).
Uno dei più potenti idoli è il denaro. “È bene non dimenticare – raccomanda Papa Francesco – quell’alta filosofia e quell’alta teologia che faceva dire alle nostre nonne che il diavolo entra dalle tasche”. Non a caso la prima azione pubblica di Gesù, nel Vangelo di Giovanni, è la cacciata dei mercanti dal tempio (cf. 2,13-21). Il denaro diventa un idolo quando perde la sua funzione di mezzo e assume quella di fine del proprio agire. L’avarizia è un vizio capitale che rende schiavi: “Nessuno può servire due padroni” (cf. Mt 6,24). Il modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo, soprattutto con i poveri. La Bibbia indica nella decima, da “consacrare con gioia” (cf. Sir 35,11), e nella spigolatura del grano non la “misura alta” ma “l’unità di misura” della gratuità, che ha il peso di un granello di senape deposto nel terreno della fede.
La fiamma che tortura l’uomo ricco è alimentata dalla sordità. Egli, infatti, non si è lasciato scavare l’orecchio dalla parola di Dio; nel prendere atto della gravità del suo stato chiede ad Abramo di mandare Lazzaro ad ammonire i suoi fratelli: “Ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento” (Lc 16,28). Secca è la risposta: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti” (Lc 16,312). Desta meraviglia il fatto che quest’uomo, che nella sua vita non ha degnato Lazzaro di uno sguardo, si rivolge ad Abramo lasciandosi sfuggire dalle labbra un moto di pietà: da dove gli viene questo sussulto di bontà? Dal fatto di essere plasmato “a immagine e somiglianza di Dio”! Per quanto l’uomo decida di voltare le spalle al Signore, per sempre, non riesce né a cancellare l’impronta della mano che lo ha creato, né a estinguere la sete di infinito che, se in vita non lo ha inquietato, dopo la morte lo tormenta.
La durezza di cuore è il sintomo della sordità che fa precipitare all’inferno l’uomo ricco, il quale nel grido del povero non ha inteso la voce di Dio, la sua chiamata “ad abbandonare, con la condotta di prima, l’uomo vecchio, a rinnovarsi nello spirito della mente e a rivestire l’uomo nuovo” (cf. Ef 4,22-24). “Non si tratta di cambiare gli abiti – avverte Papa Francesco – ma le abitudini”. Nel termine conversione spesso è prevalente il significato – che pure gli appartiene – di pentimento, di un tornare indietro. Ma conversione non è solo un viaggio di ritorno, un re-vertere; conversione ha anche il significato di progressione, di un andare verso il Signore, scorgendo il Suo volto “in quello di coloro con i quali Egli stesso ha voluto identificarsi”.
“Convertitevi e credete al Vangelo” (cf. Mc 1,15): all’inizio della Quaresima la liturgia ripete questo appello, che non è un’ingiunzione, ma un’invocazione di salvezza in cui risuona l’eco della bontà di Dio che spinge l’uomo alla conversione (cf. Rm 2,4). È Lui, infatti, che viene incontro a chi lo cerca con “cuore contrito e umiliato”; è Lui che, “ricco di misericordia” (Ef 2,4), assicura il suo adsum (cf. Is 58,9) a chiunque reciti il confiteor non solo battendosi il petto, ma anche chinandosi davanti al fratello bisognoso di aiuto.
Papa Francesco, nel suo messaggio per la Quaresima, invita a meditare la parabola dell’uomo ricco, “vestito di porpora e di lino finissimo”, e del povero, di nome Lazzaro, “coperto di piaghe e bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco” (cf. Lc 16,19-31). L’uomo ricco, che non ha nome, impersona l’uso iniquo delle ricchezze; il povero, al contrario, ha un nome, Lazzaro, abbreviazione di Eleazaro, che significa “Dio aiuta”. “Il povero alla porta del ricco – osserva Papa Francesco – non è un fastidioso ingombro, ma un appello a convertirsi e a cambiare vita. Il primo invito che ci fa questa parabola è quello di aprire la porta del nostro cuore all’altro, perché ogni persona è un dono, sia il nostro vicino sia il povero sconosciuto”. “È proprio della carità – affermava Paolo VI – avere l’intelligenza del dolore altrui, mentre l’egoismo rende insensibili e ciechi”.
La parabola è impietosa nell’evidenziare le contraddizioni in cui si trova il ricco, impegnato a consumare lauti banchetti nella solitudine dello sfarzo (cf. Lc 16,19). La sua vita è prigioniera dell’esteriorità: l’apparenza maschera il vuoto interiore; la ricchezza assume il volto di una illusoria sicurezza. “In lui – rileva Papa Francesco – si intravede drammaticamente la corruzione del peccato, che si realizza in tre momenti successivi: l’amore per il denaro, la vanità e la superbia”. “L’avidità del denaro è la radice di tutti i mali” (1Tm 6,10): è il principale motivo della corruzione, persino della deviazione dalla fede; è la causa scatenante di molti tormenti, in particolare della superbia e del folle orgoglio, da cui scaturisce la collera, grado più basso del degrado morale.
La parte principale della parabola si svolge nell’aldilà: “Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto” (Lc 16,22). Egli, “stando negli inferi fra i tormenti” (Lc 16,23), sperimenta quanto sia vero che “non abbiamo portato nulla nel mondo e nulla possiamo portare via” (1Tm 6,7). L’amarezza di questa scoperta lo spinge a stabilire un dialogo con Abramo, che chiama “padre” (cf. Lc 16,24.27), e a cercare, inutilmente, non tanto indulgenza quanto clemenza. “Solo tra i tormenti dell’aldilà – sottolinea Papa Francesco – il ricco riconosce Lazzaro e vorrebbe che gli alleviasse le sue sofferenze con un po’ d’acqua”. Ma Abramo gli spiega che i tormenti sono il salario di una vita consegnata al denaro (cf. Lc 16,25) e, soprattutto, gli ricorda che un limite invalicabile, “un grande abisso”, lo separa per sempre da Lazzaro (cf. Lc 16,26).
Uno dei più potenti idoli è il denaro. “È bene non dimenticare – raccomanda Papa Francesco – quell’alta filosofia e quell’alta teologia che faceva dire alle nostre nonne che il diavolo entra dalle tasche”. Non a caso la prima azione pubblica di Gesù, nel Vangelo di Giovanni, è la cacciata dei mercanti dal tempio (cf. 2,13-21). Il denaro diventa un idolo quando perde la sua funzione di mezzo e assume quella di fine del proprio agire. L’avarizia è un vizio capitale che rende schiavi: “Nessuno può servire due padroni” (cf. Mt 6,24). Il modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo, soprattutto con i poveri. La Bibbia indica nella decima, da “consacrare con gioia” (cf. Sir 35,11), e nella spigolatura del grano non la “misura alta” ma “l’unità di misura” della gratuità, che ha il peso di un granello di senape deposto nel terreno della fede.
La fiamma che tortura l’uomo ricco è alimentata dalla sordità. Egli, infatti, non si è lasciato scavare l’orecchio dalla parola di Dio; nel prendere atto della gravità del suo stato chiede ad Abramo di mandare Lazzaro ad ammonire i suoi fratelli: “Ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento” (Lc 16,28). Secca è la risposta: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti” (Lc 16,312). Desta meraviglia il fatto che quest’uomo, che nella sua vita non ha degnato Lazzaro di uno sguardo, si rivolge ad Abramo lasciandosi sfuggire dalle labbra un moto di pietà: da dove gli viene questo sussulto di bontà? Dal fatto di essere plasmato “a immagine e somiglianza di Dio”! Per quanto l’uomo decida di voltare le spalle al Signore, per sempre, non riesce né a cancellare l’impronta della mano che lo ha creato, né a estinguere la sete di infinito che, se in vita non lo ha inquietato, dopo la morte lo tormenta.
La durezza di cuore è il sintomo della sordità che fa precipitare all’inferno l’uomo ricco, il quale nel grido del povero non ha inteso la voce di Dio, la sua chiamata “ad abbandonare, con la condotta di prima, l’uomo vecchio, a rinnovarsi nello spirito della mente e a rivestire l’uomo nuovo” (cf. Ef 4,22-24). “Non si tratta di cambiare gli abiti – avverte Papa Francesco – ma le abitudini”. Nel termine conversione spesso è prevalente il significato – che pure gli appartiene – di pentimento, di un tornare indietro. Ma conversione non è solo un viaggio di ritorno, un re-vertere; conversione ha anche il significato di progressione, di un andare verso il Signore, scorgendo il Suo volto “in quello di coloro con i quali Egli stesso ha voluto identificarsi”.
“Convertitevi e credete al Vangelo” (cf. Mc 1,15): all’inizio della Quaresima la liturgia ripete questo appello, che non è un’ingiunzione, ma un’invocazione di salvezza in cui risuona l’eco della bontà di Dio che spinge l’uomo alla conversione (cf. Rm 2,4). È Lui, infatti, che viene incontro a chi lo cerca con “cuore contrito e umiliato”; è Lui che, “ricco di misericordia” (Ef 2,4), assicura il suo adsum (cf. Is 58,9) a chiunque reciti il confiteor non solo battendosi il petto, ma anche chinandosi davanti al fratello bisognoso di aiuto.
+ Gualtiero Sigismondi