Meditazione dettata agli operatori pastorali, all’inizio dell’Avvento 2019
Il tempo di Avvento ci sollecita a coltivare la “spiritualità della vigilia”, l’attesa fiduciosa e gioiosa del ritorno del Signore. La “spiritualità della vigilia” è quella dei servi che, “con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese, aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito” (cf. Lc 12,35-36). È la spiritualità che richiama l’atteggiamento del pellegrino, “un viandante che fa della strada il proprio domicilio”. È la spiritualità dell’ascolto che, attraverso l’esercizio del silenzio, avverte il mormorio del passaggio di Dio nella propria vita. La “spiritualità della vigilia” è quella testimoniata da Giovanni Battista il quale, con la sua voce, ha aperto la strada alla Parola; è la spiritualità di Giuseppe, “uomo giusto”, che con semplicità d’animo e povertà di spirito ha preso con sé Maria, sua sposa, donna dal cuore e dagli occhi semplici, “ebbri di Dio”.
Nella Sacra Scrittura il termine semplicità è riferito non solo al cuore (cf. Sap 1,1) ma anche all’occhio: “La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso” (Mt 6,22). La docilità di un cuore semplice, non indurito dalla cupidigia, si riflette nella luminosità dello sguardo e, allo stesso tempo, la semplicità dello sguardo dilata il cuore. “L’occhio e il cuore – scrive Antonio Gentili – si richiamano a vicenda; svolgono nel corpo una funzione correlata, in stretta interdipendenza: quello che contempla l’occhio lo passa al cuore e ciò che è puntualizzato dal cuore viene a riflettersi limpidamente sull’occhio”. La semplicità è, dunque, la beatitudine più grande del cuore umano. Nella letteratura biblica il termine semplicità assume il significato di perfezione, integrità, sincerità, autenticità (cf. Sal 101,2; 118,80).
“Signore, tendi l’orecchio, rispondimi, perché io sono povero e misero” (Sal 86,1). Questa supplica traduce l’amarissima esperienza di un pio israelita il quale, vittima innocente di gente senza scrupoli, apre a Dio il suo cuore chiedendogli di porgergli l’orecchio. L’orante, con animo accorato, avanza questa richiesta: “Mostrami, Signore, la tua via, perché nella tua verità io cammini; donami un cuore semplice che tema il tuo nome” (v.11). La traduzione letterale del testo ebraico dovrebbe essere resa così: “Tieni unito il mio cuore”. Geremia pone questa invocazione sulle labbra di Dio in favore di Israele: “Darò loro un solo cuore e un solo modo di comportarsi” (Ger 32,39). Un cuore unito è un cuore aperto all’amore di Dio, il quale “dona a tutti con semplicità e senza condizioni” (Gc 1,5). Un cuore semplice è un cuore infiammato da Dio, il quale “ama chi dona con gioia” (2Cor 9,7), “chi dona con semplicità” (cf. Rm 12,8). Un cuore semplice è un cuore libero, capace di vivere un umile affidamento alla fedeltà di Dio.
“La semplicità – afferma Romano Guardini – è valore sommo, ma non significa semplicioneria. Essa è meta lontana”. Semplicità è oblio di sé e dominio di sé; suoi opposti sono il narcisismo, la presunzione, l’ipocrisia. La semplicità è la virtù di chi è libero dall’amor proprio e si riconosce legato a Dio solo; è la virtù di chi, instancabile nel dono di sé, ha la saggezza di non saper ostentare. Ogni virtù, come ad esempio la carità, senza la semplicità mancherebbe dell’essenziale. “Chiunque tende alla patria eterna – sottolinea Gregorio Magno – vive indubbiamente con semplicità e rettitudine: è semplice cioè nell’operare, retto nella fede; semplice nel bene materiale che compie, retto nei beni spirituali che percepisce nel suo intimo. Vi sono infatti certuni che non sono semplici nel bene che fanno, poiché ricercano in esso non la ricompensa all’interno, ma il plauso all’esterno”.
Semplice viene dal latino sine plica, che significa “senza piega”, cioè senza zone oscure, nascoste, equivoche. Semplicità è sinonimo di essenzialità, armonia, schiettezza, trasparenza, limpidezza, innocenza, quella di un bambino. Dio stesso ha scelto la semplicità di “un bambino avvolto in fasce” per venire “ad abitare in mezzo a noi”. Spirito d’infanzia e semplicità si richiamano a vicenda; e tuttavia la semplicità non è sintomo di ingenuità: fa appello alla prudenza. “Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” (Mt 10,16): Gregorio Magno, nel Commento al Libro di Giobbe, scrive che Cristo “ha unito necessariamente l’una e l’altra cosa nel suo ammonimento, in modo che l’astuzia del serpente ammaestri la semplicità della colomba, e la semplicità della colomba moderi l’astuzia del serpente”.
La semplicità è una virtù che diventa beatitudine quando, oltre ad essere gemellata con la prudenza, è associata all’umiltà. L’umiltà è una condizione e una conseguenza della semplicità, che rende liberi e lieti di non tenere nulla per sé, nemmeno la propria vita. Nella semplicità l’uomo conquista la sua nobiltà e la sua grandezza: nessuno è più nobile di chi è semplice e nessuno è più semplice di chi è “nobile per grazia”. È veramente semplice solo chi è consapevole di essere “servo inutile” (cf. Lc 17,10): questo titolo onorifico, come lascia intendere Gesù nel Vangelo, lo merita soltanto chi compie con “entusiasmo sincero”, vale a dire “con cuore libero e ardente”, tutto quello che, nel suo stato di vita, è chiamato a operare. Siamo “servi inutili”, “semplicemente servi – precisa Papa Francesco –, non nel senso che non serviamo a niente, ma che non cerchiamo il nostro utile e non avanziamo rivendicazioni o pretese di alcun genere”. Siamo “servi inutili”, cioè simili a un fiammifero che, consumandosi, adempie alla sua funzione.
La semplicità è segno di unità interiore e strumento di comunione (cf. Ef 6,5; Col 3,22). Sorella Maria, dell’Eremo francescano di Campello sul Clitunno, si chiedeva: “Che cosa è la semplicità? È il fare a meno di tutto ciò – rispondeva – che non è l’unum necessarium (…). Perché – domandava alle sorelle – non siamo semplici? Perché ci mancano il coraggio e l’umiltà (…). Noi siamo insieme per semplificare tutto”. Illuminante, al riguardo, è la testimonianza resa da Giovanni XXIII il quale confidava: “Più mi faccio maturo di anni e di esperienze e più riconosco che la via più sicura è la semplicità”. A giudizio di Papa Roncalli, semplicità è assenza di sovrastrutture, di cerimoniali, di decorazioni, di orpelli. Semplicità è dire soltanto: “Gesù Cristo e questi crocifisso” (cf. 1Cor 2,2). Semplicità è riconoscere che “solo Dio basta”.
Nella prospettiva cristiana la semplicità appare un tratto caratteristico e originale di Gesù e deve esserlo anche della Chiesa, chiamata a presentarsi al mondo con uno stile diretto, sobrio, concentrato sull’essenziale. Con il suo impegno nella storia, sempre orientato ai beni eterni, la Chiesa “prepara la via del Signore”, attende il giorno glorioso della Parusia che, nella sua gratuità di dono, si configura non come futurum bensì come adventus. “L’esistenza ha il suo punto di gravità nell’avvenire; noi – diceva Jean Guitton – entriamo a ritroso nel futuro”. La storia è costantemente segnata da fratture e suture, ma è pure decisamente orientata, anzi, irresistibilmente attratta da Gesù Cristo, Re e Signore dell’universo.
Fratelli carissimi, la “notte più luminosa del sole” dell’Incarnazione del Verbo ha segnato l’inizio della pienezza del tempo; “l’aurora radiosa e splendida” del giorno di Pasqua ha restituito “la luce della vita” al mondo intero. Il tempo che viviamo, quello della Chiesa pellegrina nella storia, è l’ora dell’attesa del giorno, “tremendo e glorioso”, del ritorno del Signore “nello splendore della gloria”. Il tempo d’Avvento viene a destare il torpore del nostro sguardo e ci assicura, con le parole del Salmo 121 – noto ai pellegrini che salivano al tempio di Gerusalemme –, che Dio “non si addormenta”, “non prende sonno”, copre Israele con la sua ombra, per impedire che vacilli e per custodirlo da ogni male. Il Salmo 121, nel narrare la premura del Signore per il Suo popolo, sollecita a non stancarsi di “guardare in alto” (cf. Is 38,14). La resistenza ad alzare gli occhi è una delle patologie più gravi di cui soffre Israele: “Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo” (cf. Os 11,7). Si tratta di una miopia che colpisce quanti, sempre in bilico tra l’ozio e l’agitazione, dimenticano la profezia dell’invocazione aramaica Maranathà: Rorate coeli desuper. “Stillate, cieli, dall’alto e le nubi facciano piovere la giustizia; si apra la terra e produca la salvezza e germogli insieme la giustizia” (Is 45,8).
Cantare Rorate coeli desuper significa gridare al cielo, riconoscendo che ogni essere umano è abitato da un desiderio così profondo che la terra non può saziare. Rorate coeli desuper lo canta solo chi ha un cuore semplice, chi ha l’umiltà di riconoscere quanto dichiara il Salmista: “Il mio aiuto viene dal Signore, Egli ha fatto cielo e terra” (Sal 121,2). Rorate coeli desuper risuona nel momento in cui attorno a noi la natura si addormenta nel sonno dell’inverno e le giornate vedono diminuire la luce e crescere la notte. “Questi sono i giorni nei quali – osserva Goffredo Boselli – la luce è desiderata e invocata più che mai, fino a Natale che, tradizionalmente, è il giorno nel quale il sole e la sua luce tornano a vincere le tenebre. L’Avvento è iscritto nel libro della natura tanto quanto è scritto nel libro liturgico”.
+ Gualtiero Sigismondi