21-03-2017
Feria di Quaresima, martedì della III settimana
“Non ritirare da noi la tua misericordia” (Dn 3,35). Questa supplica, elevata a Dio da Azaria “in mezzo al fuoco”, ci offre la chiave di lettura della parabola del servo spietato (cf. Mt 18,21-35), che Gesù racconta per rispondere all’interrogativo sollevato da Pietro: “Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?” (Mt 18,21). La libertà di accogliere il perdono di Dio, di “trovare misericordia” (cf. Dn 3,38), dipende dalla gratuità di perdonare “di cuore”, “settanta volte sette”, i nostri fratelli. San Giovanni Crisostomo assicura che “niente ci rende tanto simili a Dio quanto l’essere sempre disposti a perdonare”.
Perdonare le offese è l’opera di misericordia spirituale più impegnativa, anche perché non è semplice per nessuno ammettere di essere debitori: è più facile dichiararsi creditori! Solo il perdono fa entrare nell’esperienza delle beatitudini: “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (Mt 5,7). Solo il perdono aiuta a vivere la preghiera con coerenza e autenticità, senza ipocrisia: “Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe” (Mc 11,25). Non si tratta di un ricatto, ma di un invito a riscattare la capacità del cuore umano di estinguere le contese, per accogliere il perdono di Dio che è sempre immeritato ma non incondizionato.
“La forza rinnovatrice del perdono disarma l’istinto di vendetta che si nasconde persino dietro il desiderio di fare giustizia”. Il perdono non è un sentimento ma una decisione che ha i suoi tempi di maturazione e segue un rigoroso protocollo: fare pace con le ferite proprie e altrui, battendosi il petto senza puntare il dito; lasciare a Dio il giudizio ultimo su ciò che non si può accettare e la soluzione di quello che al presente appare irrisolvibile; dare a chi ha sbagliato nuove possibilità e gli strumenti per cambiare; nutrire la serena fiducia che nulla è mai perduto, poiché in ogni strada c’è una corsia che conduce a Dio, il quale “tutto dispone con forza e dolcezza”.
“La proposta del perdono – osservava San Giovanni Paolo II – non è di immediata comprensione né di facile accettazione; comporta sempre un’apparente perdita a breve termine, mentre assicura un guadagno reale a lungo termine”. Il perdono è un antidoto al rancore e, al tempo stesso, un integratore della correzione fraterna. È opportuno richiamare, al riguardo, questa raccomandazione di Papa Francesco: “Amiamo coloro che ci sono ostili; benediciamo chi sparla di noi; salutiamo con un sorriso chi forse non lo merita; non aspiriamo a farci valere, ma opponiamo la mitezza alla prepotenza; dimentichiamo le umiliazioni subite (…). Un cuore vuoto di amore è come una chiesa sconsacrata, sottratta al servizio divino e destinata ad altro”.
Il perdono spezza la catena rigida del dare-avere e introduce quella particolare “economia” dell’amore che non calcola ma dona, non mette ipoteche ma le cancella, non pone vincoli ma salda tutte le pendenze. Questa logica della gratuità non annulla le esigenze della giustizia ma le compie: non è un colpo di spugna, non ha niente in comune con la pietà condiscendente, non tollera le ingiustizie ma le denuncia (cf. Ef 4,32; Col 3,13). Il perdono non è remissivo, non è vile, porge l’altra guancia (cf. Mt 5,39) ma in modo ragionevole, come fa Gesù con la guardia che lo schiaffeggia: “Perché mi percuoti?” (cf. Gv 18,22-23).
Perdonare non è chiudere gli occhi dinanzi al male: “non si perdona perché si dimentica, si dimentica perché si perdona”. Vincere il male con il bene (cf. Rm 12,21) non è sintomo di una debolezza complice, ma di una grande forza spirituale, di un’intensa vigilanza sulle proprie passioni, perché “l’ira dell’uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio” (Gc 1,20). Il vizio capitale dell’ira ha il sopravvento là dove il cuore rinuncia a offrire, “settanta volte sette”, l’abbraccio del perdono. “Non tramonti il sole sopra la vostra ira e non date spazio al diavolo” (Ef 4,26-27): se il sole tramonta sull’ira, l’aurora viene svegliata dal rancore, che erompe dalle viscere senza freni. Secondo l’autore della lettera agli Efesini per liberarsi dal potere dell’ira occorre vivere nella benevolenza, nella misericordia e nel perdono reciproci (cf. Ef 4,31-32).
La supplica che Azarìa presenta a Dio “in mezzo al fuoco”, alimentato “sette volte più del solito” (cf. Dn 3,19) dai fremiti dell’ira di Nabucodònosor, testimonia che il perdono, offerto fino a “settanta volte sette”, non è un condono ma la misura alta del dono di sé.
Perdonare le offese è l’opera di misericordia spirituale più impegnativa, anche perché non è semplice per nessuno ammettere di essere debitori: è più facile dichiararsi creditori! Solo il perdono fa entrare nell’esperienza delle beatitudini: “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (Mt 5,7). Solo il perdono aiuta a vivere la preghiera con coerenza e autenticità, senza ipocrisia: “Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe” (Mc 11,25). Non si tratta di un ricatto, ma di un invito a riscattare la capacità del cuore umano di estinguere le contese, per accogliere il perdono di Dio che è sempre immeritato ma non incondizionato.
“La forza rinnovatrice del perdono disarma l’istinto di vendetta che si nasconde persino dietro il desiderio di fare giustizia”. Il perdono non è un sentimento ma una decisione che ha i suoi tempi di maturazione e segue un rigoroso protocollo: fare pace con le ferite proprie e altrui, battendosi il petto senza puntare il dito; lasciare a Dio il giudizio ultimo su ciò che non si può accettare e la soluzione di quello che al presente appare irrisolvibile; dare a chi ha sbagliato nuove possibilità e gli strumenti per cambiare; nutrire la serena fiducia che nulla è mai perduto, poiché in ogni strada c’è una corsia che conduce a Dio, il quale “tutto dispone con forza e dolcezza”.
“La proposta del perdono – osservava San Giovanni Paolo II – non è di immediata comprensione né di facile accettazione; comporta sempre un’apparente perdita a breve termine, mentre assicura un guadagno reale a lungo termine”. Il perdono è un antidoto al rancore e, al tempo stesso, un integratore della correzione fraterna. È opportuno richiamare, al riguardo, questa raccomandazione di Papa Francesco: “Amiamo coloro che ci sono ostili; benediciamo chi sparla di noi; salutiamo con un sorriso chi forse non lo merita; non aspiriamo a farci valere, ma opponiamo la mitezza alla prepotenza; dimentichiamo le umiliazioni subite (…). Un cuore vuoto di amore è come una chiesa sconsacrata, sottratta al servizio divino e destinata ad altro”.
Il perdono spezza la catena rigida del dare-avere e introduce quella particolare “economia” dell’amore che non calcola ma dona, non mette ipoteche ma le cancella, non pone vincoli ma salda tutte le pendenze. Questa logica della gratuità non annulla le esigenze della giustizia ma le compie: non è un colpo di spugna, non ha niente in comune con la pietà condiscendente, non tollera le ingiustizie ma le denuncia (cf. Ef 4,32; Col 3,13). Il perdono non è remissivo, non è vile, porge l’altra guancia (cf. Mt 5,39) ma in modo ragionevole, come fa Gesù con la guardia che lo schiaffeggia: “Perché mi percuoti?” (cf. Gv 18,22-23).
Perdonare non è chiudere gli occhi dinanzi al male: “non si perdona perché si dimentica, si dimentica perché si perdona”. Vincere il male con il bene (cf. Rm 12,21) non è sintomo di una debolezza complice, ma di una grande forza spirituale, di un’intensa vigilanza sulle proprie passioni, perché “l’ira dell’uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio” (Gc 1,20). Il vizio capitale dell’ira ha il sopravvento là dove il cuore rinuncia a offrire, “settanta volte sette”, l’abbraccio del perdono. “Non tramonti il sole sopra la vostra ira e non date spazio al diavolo” (Ef 4,26-27): se il sole tramonta sull’ira, l’aurora viene svegliata dal rancore, che erompe dalle viscere senza freni. Secondo l’autore della lettera agli Efesini per liberarsi dal potere dell’ira occorre vivere nella benevolenza, nella misericordia e nel perdono reciproci (cf. Ef 4,31-32).
La supplica che Azarìa presenta a Dio “in mezzo al fuoco”, alimentato “sette volte più del solito” (cf. Dn 3,19) dai fremiti dell’ira di Nabucodònosor, testimonia che il perdono, offerto fino a “settanta volte sette”, non è un condono ma la misura alta del dono di sé.
+ Gualtiero Sigismondi