III° Catechesi quaresimale di Mons. Sorrentino: La risurrezione di Lazzaro (Gv 11)

18-03-2022

Ecco uno dei capitoli più umani e più divini del Vangelo.

Umanità. Sprizza da tutti i pori. Fermandoci su ogni rigo di questo racconto, facciamo un bagno di umanità, di vera umanità, quella che il Salvatore è venuto a restaurare e a portare a compimento. E ci scontriamo anche con l’umanità “al contrario”, quella abbarbicata al peccato, che si auto imprigiona nella sua cecità, che programma la morte anche quando si trova di fronte a uno scoppio di vita.

Divinità. Rifulge nella voce potente con cui Gesù sottrae un uomo incadaverito da quattro giorni alle sue bende ormai più che maleodoranti, e lo rimette sulle strade della vita, di una nuova gioia di vivere, di una nuova libertà tutta da sperimentare ancora su questa terra. Cosa c’è di più divino?

Il racconto ci è offerto perché noi attingiamo ad entrambe le cose:

– perché respiriamo la bellezza della nostra umanità nei suoi aspetti migliori,

– perché ci lasciamo afferrare dalla nostalgia del divino, al quale siamo chiamati proprio facendo di Gesù il nostro Dio.

Proviamo a rileggere il brano da queste due prospettive.

La linea dell’umano. Lo scenario è un villaggio, Betania, a pochi chilometri da Gerusalemme. In scena un personaggio, Lazzaro, fino a questo punto ignoto, e due sorelle, Marta e Maria, che conosciamo anche dal Vangelo di Luca. Dove si trova Gesù, in questo momento? Il capitolo precedente lo presentava quasi fuggiasco, dopo un animato dibattito, sfociato per lui in una minaccia di morte, anzi, in un vero e proprio tentativo di assassinio. Avevano preso pietre per lapidarlo, ma lui l’aveva scampata – il Vangelo di Giovanni mette in evidenza questa sua abilità, segno della sua forza divina –, ma decidendo di starsene un po’ in disparte, con i suoi, in un punto della riva del Giordano, che egli e i suoi conoscevano bene, perché era stato il luogo del Battista. Li possiamo immaginare, Gesù e i discepoli, mentre dialogano.  In qualche modo sospettiamo le cose che si dicono. Sono quelle di chi è minacciato. Si parla, in sostanza, della possibilità che Gesù venga ucciso. Non certo un bel discorso per tenere alto l’umore. Quando Gesù prende la decisione di recarsi a Betania, Tommaso – sì, proprio lui, quello che dopo la risurrezione farà fatica a credere – ha un bello scatto di generosità, rivolgendosi agli amici: «Andiamo anche noi a morire con lui».

In effetti una notizia è arrivata da Betania, e non è una notizia bella: Lazzaro, l’amico di Gesù – ma anche l’amico dei Dodici, come è poi rimarcato – è morto. Chi gli porta la notizia, deve avergliela data separatamente, al punto che tocca a Gesù condividerla, e lo fa con le sue tipiche strategie comunicative fatte per porre interrogativi. Dice, in sostanza, che Lazzaro non sta bene. Dice che si è “addormentato”. Solo alla fine comunica chiaro e tondo: «Lazzaro è morto». I discepoli hanno fatto fatica a seguirlo, ma ora   forse lo capiscono ancora meno, quando egli decide di aspettare due giorni, prima di andare a Betania.

Da questa famiglia dei discepoli, lo sguardo slitta verso un’altra famiglia, anch’essa di Gesù: la casa di Betania. Se quella degli apostoli è la famiglia itinerante, questa di Betania è la famiglia accogliente. Faceva da sosta per Gesù e i Dodici quando arrivavano a Gerusalemme dalla Galilea. Doveva essere per loro un luogo di distensione. Per Gesù, poi, era il luogo dove i sentimenti più profondi, gli sguardi più umani, i modi più amorevoli, potevano essere espressi in libertà. Il Vangelo di Luca ce ne dà una sbirciata intensa, quando ci presenta Gesù che, arrivato a Betania, si trova servito con premura da Marta, mentre Maria pende dalle sue labbra. In questo capitolo di Giovanni, è tutt’altro clima. La morte si è abbattuta su questa casa accogliente. Il narratore ci mostra la casa piena di gente venuta a piangere con le due sorelle. Doveva essere – quella di Lazzaro, Marta e Maria – una famiglia ben nota. Tutti sapevano dell’amicizia di Gesù con i tre, ma forse non immaginavano fino a qual punto.  Peraltro solo il Vangelo di Giovanni ci fa scoprire Lazzaro e l’affetto di Gesù per lui. Il suo scoppio di pianto, quando incontra Maria e i piangenti intorno a lei, fa dire ai presenti «Vedi quanto lo amava». Gesù ha un cuore capace di amare. Amare divinamente e umanamente. Il rapporto con lui non ci toglie nulla della nostra umanità, semmai la porta alla pienezza. Lo si vede soprattutto nel tratto appassionato di Maria che, nel capitolo seguente, sarà ripresa ai piedi di Gesù mentre li unge con profumo e li asciuga con i capelli. Amore che vuole farsi uno con l’amato, preparandosi e preparandolo alla morte, come Gesù stesso spiegherà controbattendo a Giuda che avrebbe voluto il prezzo di quel profumo dato ai poveri, ma non certo per amore di poveri. Gesù gli dirà allora, in ultima analisi, che egli è il Dio che si è fatto il più povero tra i poveri, perché ai poveri, che stanno sempre con noi, si possa pensare con un cuore rinnovato dalla sua croce.

Quanta umanità in queste due famiglie, in questi due racconti di affetti sinceri, in cui i rapporti si intessono con tutte le sfumature dell’amore! E gli astanti? Come altre volte nel Vangelo di Giovanni, stanno a guardare. Alcuni si coinvolgono, altri restano perplessi. Qualcuno – ci viene detto – si atteggia a spia e va ad informare i nemici di Gesù. E allora esplode l’odio ormai programmato in un sinedrio dove matura definitivamente la decisione di uccidere Gesù.

Ecco un’altra faccia dell’umanità, rispetto alla quale dobbiamo essere sempre vigili, perché passa come una linea divisoria dentro il nostro stesso cuore e i nostri rapporti, fino a che cuore e rapporti non sono unificati e cementati da Gesù. L’insidia del “divisore”, di Satana, ci abita, sta sempre in agguato.

Proviamo ora a porci dall’altra prospettiva, quella che abbiamo chiamata divina.

Gesù si mette in cammino verso Betania. Ai suoi apostoli ha spiegato quel voluto e strano ritardo: lo ha voluto perché la gloria di Dio risplendesse ancora più chiaramente. Se fosse arrivato subito, qualcuno avrebbe potuto dire che forse aveva riportato alla vita un Lazzaro non ancora del tutto morto. Si sarebbe forse dubitato del miracolo. Ora, invece, dopo quattro giorni di sepolcro, nessuno può   avere più dubbi. Lazzaro è prigioniero dell’ultimo buio. Le bende e il sudario che lo fasciano nella rigidità cadaverica, sono il certificato medico inconfutabile. Solo Dio può metterci mano. Solo lui può riportare alla vita un corpo ormai in via di putrefazione. Il miracolo di Lazzaro è il culmine dell’attività taumaturgica di Gesù e, insieme, una preparazione al miracolo supremo al quale nessuno potrà assistere, ma che sarà il sigillo rivelatore del suo mistero, la sua risurrezione il giorno di Pasqua.

Tutto, nel racconto, mira a questo traguardo.

Tocca prima a Marta: al suo pianto e alla sua fede nella risurrezione dei morti – risurrezione pensata, secondo la fede comune, solo per la fine dei tempi – Gesù dà un messaggio di speranza per l’oggi: «Io sono la risurrezione e la vita».

Tocca poi a Maria. Una parola l’ha fatta scattare: «Il maestro è qui e ti chiama». Ed ella corre. Arriva da Gesù con tutta la sua umanità, quasi rimproverando il Maestro, per non essersi trovato – lui che sa tutto – al capezzale di Lazzaro. Lo dice gettandosi ai suoi piedi: come faceva quando rimaneva a lungo ad ascoltarlo, e come farà quando a breve glieli ungerà. Una donna prostrata dal dolore e insieme consumata dall’amore. Strappa lacrime a Gesù. In compenso Gesù le strappa la fede.

Proviamo a far nostra la professione di fede di Marta e Maria. Quella di Marta: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo». Quella silenziosa di Maria, che resta ammutolita ai suoi piedi, stringendo il corpo del Maestro come un naufrago stringe il legno che lo tiene a galla.

 

E siamo all’ultimo atto, divino – umano insieme: quello del miracolo. Un atto che inizia con una preghiera: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Parole che rivelano il volto del Padre e il suo rapporto speciale con Gesù, fatto per diventare anche il suo rapporto con noi. Gesù sa che il Padre lo ascolta sempre, anzi, lo ha già ascoltato. Chiede a noi di pregare con la stessa fiducia, anche quando l’apparente silenzio di Dio sembra irremovibile e le nostre suppliche vane. Una risposta – ci assicura Gesù – c’è sempre, ma passa per la divina sapienza tanto superiore alla nostra, e certamente preoccupata del nostro vero bene.

Ed eccoci finalmente alla parola creatrice e, in questo caso, ri-creatrice: «Lazzaro, vieni fuori.» La morte è piegata. La pietra è tolta. Le bende sono sciolte. Torna la vita.

Tutti siamo in quel sepolcro. Nell’adorazione che stiamo per compiere alla presenza eucaristica di Gesù, è questo che egli si aspetta e che insieme ci dona. Si aspetta che gli diciamo le parole di amore e di fede delle sorelle di Betania, per far giungere alla nostra vita, alle macerie del nostro peccato, alla pietra indurita del nostro cuore, la parola della risurrezione: «Lazzaro, vieni fuori». Ognuno di noi può mettere, al posto del nome di Lazzaro, il suo nome.

La Pasqua, alla quale ci stiamo preparando, è questo. Non può essere una stanca data di calendario della nostra tradizione religiosa. Dev’essere un vero inizio, un ricominciamento, un tuffarci nel futuro di Dio e nella vita che non muore.  «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno». Parole da credere e da vivere. Parole da far brillare, come parole di speranza, nell’orizzonte così confuso, e talvolta disperato, del nostro tempo, che ci sta facendo vedere, in questi giorni, in Ucraina, scene di macerie, lacrime e sangue.  La Pasqua è per tutti. È speranza che albeggia   e torna vigorosa come luce in fondo al tunnel. La nostra vita è sempre ad un passo dalla luce, da quando lui, Gesù, il divino e umano fratello di tutte le nostre battaglie, si è lasciato inchiodare alla croce sconfiggendo alla radice il nostro peccato e la nostra morte.