La sinodalità esprime il mistero della Chiesa come comunione, sia nella sua dimensione spirituale, sia sul piano dinamico dell’agire. Prescindendo da un esame delle fonti della nozione di sinodalità, da uno sguardo sulle sue realizzazioni storiche, dalle sue applicazioni ai diversi livelli della vita ecclesiale e dalla sua specificità rispetto ad altri concetti affini, come quello di collegialità, occorre sottolineare che essa è venuta alla ribalta nella teologia cattolica dopo il rinnovamento operato dal Vaticano II. E tuttavia, a più di 50 anni dalla stagione conciliare, non si è ancora sviluppato nella vita pastorale e nelle strutture ecclesiali uno stile sinodale.
“Chiesa è il nome del convenire e del camminare insieme” (S. Giovanni Crisostomo, Ex in Psalm 149,2). Questa affermazione mette in luce il duplice aspetto della sinodalità: il rapporto della Chiesa con la liturgia eucaristica, sorgente della communio, e la modalità storica con cui tale communio si attua: “camminare insieme”. La sinodalità, frutto e condizione della venuta dello Spirito, è la forma esteriore che il mistero della communio assume nella vita della Chiesa. La sinodalità trova nel discernimento la sua più alta definizione; esso non precede l’azione ecclesiale, ma è il risultato di un paziente cammino di verifica (verum facere) che, all’interno di un’autentica vita di comunione, punta ad accogliere “ciò che lo Spirito dice alle Chiese” (Ap 2,7).
La sinodalità si manifesta, anzitutto, nella presa di coscienza che il sacerdozio ministeriale, nato nel Cenacolo unitamente all’Eucaristia, è posto al servizio del popolo sacerdotale. I ministri ordinati, quali “servi premurosi del popolo di Dio”, sono chiamati ad essere sempre più formatori di coscienze e sempre meno gestori diretti di tutte le attività pastorali, di cui i fedeli laici sarebbero “i beneficiari o la clientela”. “Noi – lamentava Yves Congar nel volume dal titolo Pour une Église servante et pauvre – abbiamo, implicita e inconfessata, o addirittura inconscia, l’idea che la Chiesa è fatta dal clero e che i fedeli ne sono solamente i beneficiari o la clientela. Questa orribile concezione si è impressa in così tante strutture e abitudini da sembrare scontata e impossibile da cambiare. È un tradimento della verità. C’è ancora molto da fare per declericalizzare la nostra concezione della Chiesa, senza, ovviamente, attentare alla sua struttura gerarchica, e per riportare i chierici nella verità totale della loro posizione di membri-servi”.
L’attento esame delle modalità di interazione tra il principio di sinodalità e il servizio di chi presiede mostra che nella Chiesa gli organismi di partecipazione, previsti dal Diritto canonico, “non si ispirano ai criteri della democrazia parlamentare” e, perciò, non si configurano come una sorta di tavolo sindacale o, al contrario, come una cassa di risonanza di decisioni già assunte. Si tratta di laboratori di discernimento comunitario che, regolati dallo spirito sinodale della convergenza, consentono di ascoltare, nella voce dei fratelli, le esigenze del presente e le richieste dello Spirito santo. Considerato in tale prospettiva, il discernimento implica inevitabilmente il criterio della “gradualità” nella comprensione della volontà di Dio, che passa sempre attraverso la “porta stretta” delle mediazioni umane.
Dalle sfide dell’ora presente occorre trarre le risorse di creatività e di carità pastorale necessarie per superare le paure che rischiano di bloccare le iniziative e i percorsi possibili. Uno dei principali tentativi in atto per intrecciare in maniera feconda la “pastorale d’insieme” è rappresentato dalle unità pastorali che, intese come infrastrutture sinodali, offrono ai presbiteri l’occasione propizia di creare piccole fraternità sacerdotali a servizio di più parrocchie. Il futuro dei presbiteri sarà tanto più sostenibile quanto più segnato da relazioni fiduciose e significative, non solo dentro le comunità loro affidate, ma anche e soprattutto dentro il presbiterio, attraverso esperienze di vita comune capaci di far maturare l’umano e favorire il confronto spirituale e pastorale. Il “segno dei tempi” delle unità o comunità pastorali si offre come “momento favorevole” per scrivere non un’altra pagina di “geografia ecclesiastica”, bensì un capitolo nuovo di storia della “spiritualità della comunione”. Si tratta di un capitolo che esige una radicale revisione della procedura delle destinazioni, la quale, come non può lasciarsi condizionare dalle emergenze pastorali, così non può ignorare che il conferimento di un incarico ministeriale non è “l’attribuzione di un compito da svolgere individualisticamente ma una partecipazione alla missione del vescovo entro il presbiterio diocesano”.
Di fronte ad una moltiplicazione di uffici pastorali che crea frammentazione progettuale e operativa, difficoltà di chiarificazione delle competenze e fatica a gestire i diversi livelli relazionali, l’idea di “pastorale integrata”, che fa leva sulla centralità dei destinatari, è una direzione di marcia da consolidare e incrementare, come auspica Papa Francesco al n° 27 dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium. “Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di uscita”. Pur riconoscendo che la progettazione per settori è necessaria per evitare l’improvvisazione, tuttavia forte è il disagio per una certa frammentazione della pastorale della Chiesa. È utile richiamare, al riguardo, quanto si legge al n° 141 del documento finale della XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi: “La moltiplicazione di uffici molto specializzati, ma a volte separati, non giova alla significatività della proposta cristiana (…). È necessario sviluppare maggiore coordinamento e integrazione tra i diversi ambiti, passando da un lavoro per uffici a un lavoro per progetti”.
Tale processo va sostenuto a livello interdiocesano, riaprendo il laboratorio del Centro Regionale Umbro di Pastorale, che ha scritto una pagina di vita ecclesiale tanto incisiva quanto breve. La storia della Regione Ecclesiastica dell’Umbria incoraggia a percorrere senza indugio questa strada, collaudata da istituzioni di grande importanza, come il Seminario Regionale (1912), il Tribunale Ecclesiastico Interdiocesano Umbro (1938), il Settimanale La Voce (1953/1984), l’Istituto Teologico di Assisi (1971). È giunta l’ora di allestire un nuovo cantiere, quello dell’accorpamento degli Istituti Diocesani Sostentamento Clero, promuovendo forme disciplinate di collaborazione operativa. Amministrare i beni ecclesiastici, sui quali c’è un’ipoteca del popolo di Dio, è un’arte da esercitare con professionalità e trasparenza, lasciandosi guidare sia dalla logica della comunione dei beni, sia dalla consapevolezza che il criterio principale di valutazione delle strutture pastorali non è la redditività, ma la corrispondenza alla missione della Chiesa, la quale non può correre il rischio di soccombere sotto le macerie del proprio patrimonio immobiliare.
C’è infine la “grande opera” – finalizzata a dare un nuovo impeto all’evangelizzazione – del riordino delle circoscrizioni ecclesiastiche. Si tratta di un processo che non sopporta ulteriori dilazioni. Era l’ormai lontano 1966, quando il Santo Papa Paolo VI indicò ai Vescovi italiani la necessità di “procedere alla fusione di non poche diocesi”. Tale percorso, timidamente intrapreso nei due decenni successivi, ha però portato a risultati piuttosto scarsi rispetto agli obiettivi prefissati e alle esigenze individuate, ovvero “un’estensione territoriale, una consistenza demografica, una dotazione di clero (oltre che di laicato opportunamente formato) e di opere idonee a sostenere un’organizzazione diocesana veramente funzionale e a sviluppare un’attività pastorale efficace e unitaria”. Occorre decidersi a incamminarsi su questa via – indicata insistentemente anche da Papa Francesco –, unendo le forze vive di uno specifico territorio sotto la figura di un Amministratore apostolico, per arrivare all’unione in persona Episcopi. “L’operazione è certamente difficile – ammetteva già Papa Montini –, ma non dovrebbe suscitare il panico e l’opposizione”.
“La Chiesa è costretta a ripensarsi – diceva Mario Agnes –. Qui è il segreto quotidiano dell’essere Chiesa secondo la volontà del Fondatore”. La capacità di avviare un processo di riforma è, dunque, un atto di forte responsabilità pastorale. Davanti alle sfide del tempo presente – “segnato da dure prove e stimolanti avventure” – è necessario riscoprire l’essenziale, indicato dal sommario di Atti 2,42-47: “la parola di Dio predicata dagli Apostoli, la frazione del Pane, la preghiera e la condivisione”. Tutti questi elementi sono imprescindibili per porre la Chiesa “in assetto da uscita”. L’icona più luminosa della “Chiesa in uscita missionaria” è il Cuore aperto di Gesù, da cui sono scaturiti “sangue ed acqua”, simboli del Battesimo e dell’Eucaristia (cf. Gv 19,33-34). Il libro di testo che esprime più profondamente l’identità di una Chiesa “in uscita” è quello degli Atti degli Apostoli, che occorre riconsegnare alle comunità cristiane e leggere in sinossi con la sua nuovissima versione in lingua corrente: l’esortazione apostolica Evangelii gaudium.
+ Gualtiero Sigismondi