Omelia per l’inizio del ministero pastorale

28-08-2021

Fratelli e sorelle,

«ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre» (Gc 1,17).
Che grande dono essere popolo di Dio, edificato da Cristo, irrorato dal sangue di san Feliciano, nutrito da una schiera di santi. Siamo una sola cosa in Gesù, siamo famiglia di Dio!
C’è tanto bisogno di testimoniare questa unità, mentre il mondo, nonostante l’inter-connessione mediatica, sperimenta tanta dispersione e solitudine, e non solo in regioni in cui imperversano guerra e violenza, ma persino nei rapporti più semplici e quotidiani. Questo inizio del mio ministero in mezzo a voi ci trova ancora con i volti nascosti a causa della pandemia e privi del simbolo unificante della cattedrale. Vi sono per questo doppiamente grato per la vostra accoglienza. Grazie anche ai fratelli e sorelle della diocesi di Assisi – Nocera Umbra – Gualdo Tadino, che, in presenza o spiritualmente, mi accompagnano. Continuerò a servirli, ma essi sanno bene che il mio cuore si è dilatato fino a voi, e tutto ormai nella mia vita, le mie forze, il mio tempo, la mia agenda, la mia preghiera, dovrà essere condiviso con entrambe le famiglie ecclesiali. Il mio compito porta inscritto il disegno dell’unità. Quello di cui la Chiesa e il mondo hanno fame. Unità che non mortifica le differenze ma moltiplica le risorse, sprigionando nuovi slanci di crescita, di servizio, di testimonianza.

Che cosa ci rende popolo, anzi famiglia, lo abbiamo ascoltato: siamo stati generati dalla Parola di verità. Una parola da accogliere. L’intenso brano della lettera di Giacomo ci ha additato un pericolo che, fin dalla prima ora, ha insidiato le comunità cristiane: la parola può fermarsi alle nostre orecchie e non scendere nel cuore. Si rischia così l’illusione di essere credenti, mentre lo si è solo di nome, di tradizione, di cultura. La fede è un’altra cosa, e in questo brano è sintetizzata come una scelta di campo, che ci fa stare lontano dalla mondanità, per far nostro il modo di pensare di Dio. La riprova di una fede autentica è la carità operosa. Ascoltiamo ancora una volta: «Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo». Mettiamo pure, per attualizzare, al posto dei termini “orfani” e “vedove”, tutti i volti concreti delle mille povertà, lontane e vicine, mettiamoci i terremotati haitiani o le donne afghane, mettiamoci il povero della porta accanto, che spesso soffre senza che nessuno se ne accorga, perché povertà non è solo bisogno di pane, ma anche bisogno di uno sguardo, di un sorriso, di una premura, di un tempo dedicato nella gratuità.

Per questo ho voluto che il mio abbraccio per voi cominciasse dal “Germoglio meraviglioso”, luogo di accoglienza e servizio, come tanti anni fa, nel mio ingresso assisano, cominciai dall’Istituto Serafico, luogo della fragilità amata. Non potendo oggi vedervi tutti, ho pensato di raggiungervi con un opuscolo, contenente una piccola riflessione quasi poetica sulla povertà e la carità. Mi lascio ispirare da san Francesco, sulle cui orme hanno camminato tanti santi che onorano la Chiesa folignate: penso a sant’Angela e alla beata Angelina. Ho immaginato, in questo scritto, tre balze da scalare, come le scalò Francesco partendo proprio da Foligno, quando vendette merci e cavallo per darli ai poveri, passando poi ad abbracciare i poveri e, infine, a farsi povero con i poveri. Con piacere ho visto che nella mia bolla di nomina anche il papa, al quale va il mio grato e affettuoso pensiero, suggerisce questo percorso esigente e affascinante, citando le parole della grande mistica Angela: “amare Cristo povero, per diventare con lui poveri”.

Non è ovviamente il programma della “miseria”. È piuttosto l’evangelico “beati i poveri di spirito”, che ci fa essere figli totalmente abbandonati alle braccia del Padre, e per questo esperti del dono e capaci di dono. Il senso di queste “tre balze”, da scalare insieme, pastore e popolo, è quello di una vita che torna alla sua verità, ritrova l’essenziale, e soprattutto si rituffa nell’Amore.

A questo nostro cammino anche gli altri brani ascoltati danno indicazioni importanti.
Nel primo Mosè si rivolge al popolo dell’alleanza, consegnandogli la “Torah”, la legge di Dio. È questa legge, a suo dire, che ne fa un popolo “saggio e intelligente”. Vale in qualche modo per ogni altro popolo. Non si tratta solo di un quadro normativo, ma di un’esperienza della vicinanza di Dio, che si traduce in una sintonia vitale con il modo di essere e di pensare di Dio. Il Vangelo torna su questo tema, mettendoci in guardia dalla tentazione di esautorare la legge di Dio con un’osservanza esteriore, formale e legalistica. A chi tacciava i suoi discepoli di inosservanza per aver trascurato alcuni dettagli della tradizione, Gesù ricorda che il luogo decisivo di un’autentica religiosità è il cuore: è lì che l’incontro con Dio si fa profondo e vero, ma è anche lì che l’uomo – e con lui la famiglia, la società, in qualche modo la stessa Chiesa – si perverte, quando si abbandona a sentimenti e propositi che contrastano con la legge di Dio e sono, al tempo stesso, negazione dell’uomo. Gesù li enumera meticolosamente: «impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza». Non è, da parte di Gesù, il lamento che tante volte facciamo rimbalzare di bocca in bocca, vedendo solo il lato brutto del mondo, e addebitandolo soprattutto agli altri. Questa parola tagliente del Salvatore è un’operazione – verità, che ci sottrae all’aria viziata del peccato, per aprirci all’aria pura della santità.

All’inizio di un ministero episcopale viene spontaneo ad un popolo che ha il primo contatto col suo pastore aspettarsi qualche orientamento. Dico subito e con semplicità: il mio programma è Gesù. Niente di più, niente di meno. Come lo è stato per voi finora. Gesù da riproporre con slancio missionario alla nostra società, alle nostre famiglie, ai nostri giovani. Gesù col suo Vangelo, perché il Vangelo sia lievito di fraternità, di cultura autentica, di economia solidale, di una politica posta al servizio del bene comune. Gesù insomma ragione stessa della nostra vita. Come declinare tutto questo in scelte concrete, personali e pastorali, lo vedremo insieme, con il metodo sinodale che a voi è già caro, sperimentato nei tanti anni di generoso e fecondo servizio di mons. Sigismondi, al quale esprimo il mio affetto davvero fraterno. Egli ha voluto che il vostro saluto per lui fosse la vostra accoglienza per me. Una delicatezza di cui gli sono riconoscente. So di trovare un clero accogliente, religiosi disponibili, laici consapevoli. Peraltro, avete fatto una bella assemblea, e i temi sui quali vi siete orientati, e che faccio miei – oratori (che è come dire giovani) e famiglia –, sono punti decisivi dell’odierna pastorale, alla quale è chiesto di essere più che mai missionaria. E chi più di san Feliciano, missionario d’eccezione, pastore dal cuore senza confini, ma radicato in questa santa Chiesa di Foligno, ci può ottenere lo slancio di cui abbiamo bisogno? Alla sua intercessione, a quella di tutti i santi folignati, e soprattutto alla Madonna del Pianto, affido il nostro cammino. Amen.

+ Domenico Sorrentino