27-03-2016
Domenica di Pasqua, 27 marzo 2016
“Le tenebre dell’antica notte hanno ceduto il posto alla vera luce”: con queste parole San Leone Magno annuncia la Pasqua del Signore, una solennità che spicca nettamente fra le altre nel corso dell’anno. Si tratta di una festa nella quale la Chiesa si rivolge al suo Signore, “amante della vita” (Sap 11,26), acclamando con immensa gioia: “È in te la sorgente della vita” (Sal 36,10). La liturgia di questo “giorno fatto dal Signore” ci conduce sulla soglia di tre porte sante: quella spalancata del sepolcro vuoto, quella serrata del cenacolo e quella del Battesimo, che è la “paratia” da cui sgorga l’acqua viva della grazia pasquale.
Lo sguardo della Chiesa oggi è fisso sulla porta del sepolcro, presidiata da “due uomini in abito sfolgorante” (cf. Lc 24,4) che hanno dato il cambio alle guardie poste da Pilato a sorvegliare la tomba di Gesù (cf. Mt 27,65-66). La magnitudo di un gran terremoto scuote il sepolcro e un angelo del Signore, “sceso dal cielo”, fa rotolare via la pietra che lo sigilla (cf. Mt 28,2): tanto alta è la tensione dell’energia vitale che si sprigiona, quanto profonda è la quiete che regna all’interno della “tomba della morte”. La scossa tellurica registrata in quello straordinario giorno dopo il sabato intimorisce le donne, affrante dal dolore, ma non fa crollare la loro speranza; i primi soccorritori, giunti sul posto subito dopo la chiamata d’urgenza delle donne, sono Pietro e Giovanni: i due discepoli che si sono ritirati per ultimi dalla scena della Passione, uno grondante di lacrime amare e l’altro con il tesoro lasciatogli in dote, la Madre di Gesù. Giovanni precede Pietro alla tomba di Gesù, e tuttavia, trafelato di stupore, lascia al “pescatore di Galilea”, ansimante di meraviglia, il compito di varcare per primo la porta santa del sepolcro vuoto (cf. Gv 20,1-10).
Se il mattino di Pasqua il Risorto ha varcato “in uscita” la porta del sepolcro, la sera di quello stesso giorno, “il primo della settimana”, Egli ha attraversato la porta blindata del cenacolo, la “stanza al piano superiore” in cui gli Undici si sono barricati per timore dei Giudei. Gesù è apparso ai discepoli “a porte chiuse”, per recare loro l’annuncio della pace (cf. Gv 20,19-23). L’evangelista Giovanni parla di porte al plurale (cf. Gv 20,19.26); oso immaginare che siano almeno tre: quella principale, quella di servizio e quella di emergenza. Chissà quale delle tre avrà scelto il Signore? Forse è entrato dalla porta di servizio, come il giorno dell’ultima Cena, consumata con i discepoli dopo aver lavato loro i piedi. Senz’altro Egli ha sorpreso gli Undici accanto alla porta di emergenza. Essi sono rimasti chiusi dentro al cenacolo per tutta l’ottava di Pasqua, come attesta l’incontro con Tommaso (cf. Gv 19,26-29). “Perseveranti e concordi nella preghiera” sono restati nel cenacolo cinquanta giorni, insieme alla Madre di Gesù (cf. At 1,12-14) che ha tolto il catenaccio alla porta principale e li ha sollecitati a non ammainare la vela della gioia pasquale che, il giorno di Pentecoste, lo Spirito santo ha gonfiato spalancando davanti a loro la porta santa dell’evangelizzazione.
Con il cero pasquale, “fuoco immerso nelle acque”, la liturgia ci conduce presso la porta della fede, quella del Battesimo, che introduce nella Chiesa, la quale nasce dalla ferita del costato di Cristo, da cui sono sgorgati sangue e acqua: il sangue simboleggia la vita donata e l’acqua lo Spirito santo (cf. Gv 19,34). Il Battesimo – “prima pasqua dei credenti, porta della nostra salvezza, inizio della vita in Cristo, fonte dell’umanità nuova” – diffonde nel mondo la luce della fede che, come scrive Papa Francesco nell’enciclica Lumen fidei, “si trasmette, per così dire, nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un’altra fiamma”. Come di generazione in generazione si trasmette la vita, così anche di generazione in generazione, attraverso la rinascita dal fonte battesimale, lo splendore della luce pasquale inonda di vita il mondo intero. Come il giorno di Pasqua l’annuncio pasquale è passato da “due uomini in abito sfolgorante” alle donne e da queste ai discepoli, così la luce della fede, come una staffetta, passa di mano in mano e ci ricorda che esiste un legame indissolubile tra essere discepoli e missionari, tra ricevere e trasmettere la fede.
Fratelli carissimi, la liturgia pasquale ci invita a ravvivare e, se necessario, a riscoprire la grazia del Battesimo. Rinnovare le promesse battesimali “in spirito e verità” significa, anzitutto, accostarsi al sacramento della Riconciliazione, “seconda tavola di salvezza dopo il Battesimo”. Il Giubileo della Misericordia ci sollecita ad aggrapparci a questa “tavola di salvezza”, che non è una “scialuppa di salvataggio”, per entrare nel “porto della misericordia e della pace”. Rinnovare le promesse battesimali vuol dire, inoltre, riconoscere che la fede “è una luce che si rispecchia di volto in volto”: il suo linguaggio attrae perché “mostra” e non “dimostra”, cerca il significato delle parole nel vocabolario dei gesti, che “parlano più delle immagini e delle parole”.
Nei racconti pasquali, letti con il “grandangolo” dei quattro Vangeli, desta una forte impressione l’invito a tornare in Galilea che, il giorno di Pasqua, raggiunge i discepoli. Questo comando risuona come un raggio di luce nel buio; per due volte le donne l’hanno sentito, prima dall’angelo (cf. Mc 16,7), poi da Gesù stesso: “Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno” (Mt 28,10). I discepoli, che il Risorto chiama “fratelli”, vengono sollecitati a tornare alle sorgenti della loro chiamata e a dissetarsi a quella fonte (cf. Lc 24,6-7). Il Risorto li attende di nuovo sulla riva del Lago di Tiberiade, nello stesso luogo dove hanno iniziato a seguirlo. Ritornare in Galilea vuol dire rileggere tutto – la predicazione, i miracoli, gli entusiasmi e le defezioni, fino al tradimento – a partire dalla fine, dall’albero in fiore della Croce, architrave della porta santa della divina misericordia!
Fratelli carissimi, anche per ognuno di noi c’è una “Galilea” all’origine del nostro cammino di fede. Ritornare in Galilea significa riscoprire il nostro Battesimo, custodire la memoria viva della chiamata alla fede, ravvivare la grazia di essere testimoni della Pasqua di Cristo, Agnello immolato, “che morendo ha distrutto la morte e risorgendo ha ridato a noi la vita”.
Lo sguardo della Chiesa oggi è fisso sulla porta del sepolcro, presidiata da “due uomini in abito sfolgorante” (cf. Lc 24,4) che hanno dato il cambio alle guardie poste da Pilato a sorvegliare la tomba di Gesù (cf. Mt 27,65-66). La magnitudo di un gran terremoto scuote il sepolcro e un angelo del Signore, “sceso dal cielo”, fa rotolare via la pietra che lo sigilla (cf. Mt 28,2): tanto alta è la tensione dell’energia vitale che si sprigiona, quanto profonda è la quiete che regna all’interno della “tomba della morte”. La scossa tellurica registrata in quello straordinario giorno dopo il sabato intimorisce le donne, affrante dal dolore, ma non fa crollare la loro speranza; i primi soccorritori, giunti sul posto subito dopo la chiamata d’urgenza delle donne, sono Pietro e Giovanni: i due discepoli che si sono ritirati per ultimi dalla scena della Passione, uno grondante di lacrime amare e l’altro con il tesoro lasciatogli in dote, la Madre di Gesù. Giovanni precede Pietro alla tomba di Gesù, e tuttavia, trafelato di stupore, lascia al “pescatore di Galilea”, ansimante di meraviglia, il compito di varcare per primo la porta santa del sepolcro vuoto (cf. Gv 20,1-10).
Se il mattino di Pasqua il Risorto ha varcato “in uscita” la porta del sepolcro, la sera di quello stesso giorno, “il primo della settimana”, Egli ha attraversato la porta blindata del cenacolo, la “stanza al piano superiore” in cui gli Undici si sono barricati per timore dei Giudei. Gesù è apparso ai discepoli “a porte chiuse”, per recare loro l’annuncio della pace (cf. Gv 20,19-23). L’evangelista Giovanni parla di porte al plurale (cf. Gv 20,19.26); oso immaginare che siano almeno tre: quella principale, quella di servizio e quella di emergenza. Chissà quale delle tre avrà scelto il Signore? Forse è entrato dalla porta di servizio, come il giorno dell’ultima Cena, consumata con i discepoli dopo aver lavato loro i piedi. Senz’altro Egli ha sorpreso gli Undici accanto alla porta di emergenza. Essi sono rimasti chiusi dentro al cenacolo per tutta l’ottava di Pasqua, come attesta l’incontro con Tommaso (cf. Gv 19,26-29). “Perseveranti e concordi nella preghiera” sono restati nel cenacolo cinquanta giorni, insieme alla Madre di Gesù (cf. At 1,12-14) che ha tolto il catenaccio alla porta principale e li ha sollecitati a non ammainare la vela della gioia pasquale che, il giorno di Pentecoste, lo Spirito santo ha gonfiato spalancando davanti a loro la porta santa dell’evangelizzazione.
Con il cero pasquale, “fuoco immerso nelle acque”, la liturgia ci conduce presso la porta della fede, quella del Battesimo, che introduce nella Chiesa, la quale nasce dalla ferita del costato di Cristo, da cui sono sgorgati sangue e acqua: il sangue simboleggia la vita donata e l’acqua lo Spirito santo (cf. Gv 19,34). Il Battesimo – “prima pasqua dei credenti, porta della nostra salvezza, inizio della vita in Cristo, fonte dell’umanità nuova” – diffonde nel mondo la luce della fede che, come scrive Papa Francesco nell’enciclica Lumen fidei, “si trasmette, per così dire, nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un’altra fiamma”. Come di generazione in generazione si trasmette la vita, così anche di generazione in generazione, attraverso la rinascita dal fonte battesimale, lo splendore della luce pasquale inonda di vita il mondo intero. Come il giorno di Pasqua l’annuncio pasquale è passato da “due uomini in abito sfolgorante” alle donne e da queste ai discepoli, così la luce della fede, come una staffetta, passa di mano in mano e ci ricorda che esiste un legame indissolubile tra essere discepoli e missionari, tra ricevere e trasmettere la fede.
Fratelli carissimi, la liturgia pasquale ci invita a ravvivare e, se necessario, a riscoprire la grazia del Battesimo. Rinnovare le promesse battesimali “in spirito e verità” significa, anzitutto, accostarsi al sacramento della Riconciliazione, “seconda tavola di salvezza dopo il Battesimo”. Il Giubileo della Misericordia ci sollecita ad aggrapparci a questa “tavola di salvezza”, che non è una “scialuppa di salvataggio”, per entrare nel “porto della misericordia e della pace”. Rinnovare le promesse battesimali vuol dire, inoltre, riconoscere che la fede “è una luce che si rispecchia di volto in volto”: il suo linguaggio attrae perché “mostra” e non “dimostra”, cerca il significato delle parole nel vocabolario dei gesti, che “parlano più delle immagini e delle parole”.
Nei racconti pasquali, letti con il “grandangolo” dei quattro Vangeli, desta una forte impressione l’invito a tornare in Galilea che, il giorno di Pasqua, raggiunge i discepoli. Questo comando risuona come un raggio di luce nel buio; per due volte le donne l’hanno sentito, prima dall’angelo (cf. Mc 16,7), poi da Gesù stesso: “Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno” (Mt 28,10). I discepoli, che il Risorto chiama “fratelli”, vengono sollecitati a tornare alle sorgenti della loro chiamata e a dissetarsi a quella fonte (cf. Lc 24,6-7). Il Risorto li attende di nuovo sulla riva del Lago di Tiberiade, nello stesso luogo dove hanno iniziato a seguirlo. Ritornare in Galilea vuol dire rileggere tutto – la predicazione, i miracoli, gli entusiasmi e le defezioni, fino al tradimento – a partire dalla fine, dall’albero in fiore della Croce, architrave della porta santa della divina misericordia!
Fratelli carissimi, anche per ognuno di noi c’è una “Galilea” all’origine del nostro cammino di fede. Ritornare in Galilea significa riscoprire il nostro Battesimo, custodire la memoria viva della chiamata alla fede, ravvivare la grazia di essere testimoni della Pasqua di Cristo, Agnello immolato, “che morendo ha distrutto la morte e risorgendo ha ridato a noi la vita”.
+ Gualtiero Sigismondi