Solennità di San Feliciano 2015 – Messa Pontificale
Fratelli carissimi, il martirio è una grazia che il Signore ha concesso a san Feliciano per sostenere la fede di tutti noi. Celebrare la festa del Patrono è, dunque, un dovere di gratitudine e, insieme, uno stimolo a testimoniare in modo coraggioso la nostra fede in Cristo che sulla Croce ha vinto per sempre il potere della violenza con l’onnipotenza dell’amore. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13): ogni testimone della fede vive questo amore “più grande”, accettando il sacrificio fino all’estremo. Il martirio cristiano si giustifica solo come supremo atto di amore in risposta all’immenso amore di Dio consumato sulla Croce.
San Bernardo, nei Sermones super Cantica, afferma che il coraggio del martire deriva proprio dalle piaghe di Gesù, entro le quali l’uomo di fede dimora. La forza per affrontare il martirio nasce, dunque, dalla profonda e intima unione con Cristo, il quale immediatamente dopo il suo ingresso a Gerusalemme risponde alla richiesta di alcuni greci, che lo volevano vedere, annunciando la sua Passione: “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Non c’è alternativa per i discepoli di Gesù all’infuori di questa: “Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (Gv 12,25). San Feliciano ci ha lasciato questa testimonianza di libertà e di fedeltà: la libertà di dare la propria vita per rimanere fedele al Vangelo. Il suo martirio ci ricorda che “la forma più intensa dell’esperienza della libertà è l’amore”.
Il Martirologio Romano documenta – scrive il card. Giacomo Biffi – che “il cristianesimo si è affermato e ha vinto non quando ha cercato di andar d’accordo con gli araldi della menzogna, i profeti del nulla, gli adoratori dei vari idoli del mondo, ma quando ha saputo essere se stesso fino a esigere il sacrificio della vita; non quando si è posto a civettare con negatori dei valori e delle certezze, ma quando ha saputo affidarsi senza titubanze alla forza della verità; non quando si è illuso che la vita cristiana possa essere una passeggiata sotto i mandorli in fiore, ma quando non ha dimenticato che il battesimo arruola e sostiene in una lotta contro il male, che nella storia non finisce mai”.
Fratelli carissimi, il termine martirio non può essere equivocato. È una parola che indica una moltitudine immensa di cristiani che sono rimasti fedeli a Cristo anche quando il prezzo era, ed è, il più alto possibile: versare il proprio sangue. Per celebrare degnamente il martire Feliciano rendiamo omaggio ai tanti cristiani che in varie parti del mondo sono perseguitati a causa della fede. “La situazione drammatica che vivono i nostri fratelli in Iraq – scrive Papa Francesco nella lettera a loro indirizzata –, ma anche yazidi e gli appartenenti ad altre comunità religiose ed etniche, esige una presa di posizione chiara e coraggiosa per condannare in modo unanime e senza alcuna ambiguità tali crimini e denunciare la pratica di invocare la religione per giustificarli”.
Una parola chiara e coraggiosa occorre dirla sul termine martirio, assunto per indicare, accanto ai martiri della fede, i martiri della patria, della mafia, del lavoro, del totalitarismo: fedeli alle proprie idee, testimoni fino alla morte. Quando i kamikaze, che dicono di agire nel nome del Profeta, si definiscono “martiri” e affermano di essere disposti al “martirio”, anzi di cercarlo, occorre gridare con forza che non sono martiri: non lo sono nemmeno per larghissima parte dell’Islam! I kamikaze, infatti, non sono martiri ma “criminali con pulsione suicida”. Il martire è tutt’altra cosa: è sempre disarmato; ama, non odia; non si toglie la vita, ma la dona; è incapace di qualsiasi violenza; non cerca il martirio ma, se costretto, è disposto a subirlo. La sua testimonianza è mite e pacifica: estingue l’odio con il perdono. Pertanto, le parole martire e martirio non possono essere corrotte nel senso voluto dai kamikaze, perché dimenticheremmo due millenni di storia, di umanità e di fede. “Occorre, dunque, difendere queste parole dall’aggressione dei violenti e dalla dabbenaggine dei distratti”.
Di recente il card. Roger Etchegaray è intervenuto su questo tema osservando che “i rapporti tra musulmani e cristiani sono molto complessi e nevralgici a causa del peso della storia ma soprattutto per via della natura stessa delle due religioni, che in fin dei conti sono molto più dissimili di quanto non si pensi abitualmente. Chiarire l’evoluzione dell’Islam, le sue diverse componenti e i fattori interni che le mettono in movimento, con le loro ricadute positive e negative, è una necessità dettata dalla realtà quotidiana. L’ora del dialogo tra cristiani e musulmani suona oggi con la forza di un campanone, poiché le derive islamiche e i diversi comportamenti terroristici che segnano i nostri giorni stanno sfigurando il volto dell’Islam e fanno dimenticare la qualità dei suoi valori religiosi. Dopo le primavere arabe, a cui sono seguiti i rigori di un inverno portato da correnti estremiste, la stessa libertà religiosa dei cristiani d’Oriente che vivono nei paesi islamici deve essere tutelata”.
Fratelli carissimi, è doveroso ammettere che ci stiamo limitando a tutelare la libertà religiosa dei cristiani d’Oriente con alcune dichiarazioni di principio e qualche fugace intenzione di preghiera. Se vogliamo soccorrere e consolare questi nostri fratelli perseguitati ed oppressi occorre non solo che la comunità internazionale si decida a sostenerli in modo concreto e generoso, ma anche che ci disponiamo ad accompagnare, senza pregiudizi, il processo di integrazione degli immigrati, che è cosa ben diversa da una qualsiasi “sistemazione”. Integrazione è fare spazio allo straniero perché non diventi un “forestiero cronico”; integrazione significa non confondere l’accoglienza con la beneficenza: la prima coinvolge e crea un legame, la seconda si accontenta di un gesto; integrazione vuol dire non essere prevenuti verso chi professa una fede diversa ma nemmeno sprovvisti di una chiara e fiera consapevolezza della propria identità culturale e religiosa.
Fratelli carissimi, la nostra identità civile ed ecclesiale è fondata sul martirio di san Feliciano; celebrare la festa del santo Patrono significa rileggere, con umile fierezza, la genesi della storia della nostra città e riscoprire le radici della nostra fede che egli ha confessato con “mite fortezza”.
Solennità di San Feliciano 2015 – Secondi Vespri
Fratelli carissimi, san Pietro Crisologo scrive che “i martiri nascono quando muoiono, cominciano a vivere con la fine, vivono quando sono uccisi, brillano nel cielo essi che sulla terra sono creduti estinti” (Sermo, 108). Dopo la generazione degli Apostoli, i martiri occupano un posto di primo piano nella comunità cristiana; nei tempi di maggiore persecuzione il loro ricordo rinfranca il faticoso cammino dei fedeli e incoraggia chi è in cerca della verità a convertirsi al Signore. È questa la ragione per la quale il popolo folignate con particolare esultanza, “come fusse giorno di Pasqua”, rende omaggio al suo Patrono.
I martiri sono quelli che, pur di conservare l’indissolubilità del rapporto con Cristo, hanno accettato persino la morte. I martiri hanno giudicato preferibile l’ultima libertà che è data all’uomo, quella di morire per Cristo piuttosto che cedere all’ingiustizia di offendere la verità. La celebrazione della festa di san Feliciano ricorda a tutti noi che non si può scendere a compromessi con l’amore a Cristo, alla sua Parola di verità. La vita cristiana esige, per così dire, il “martirio” della fedeltà quotidiana al Vangelo, il coraggio cioè di lasciare che Cristo cresca in noi e sia Lui a orientare il nostro pensiero e le nostre azioni.
La Passio Sancti Feliciani documenta la serenità con la quale il fondatore della nostra Chiesa particolare ha sopportato i tormenti del martirio. Sopportare tacendo, sopportare amando, sopportare benedicendo: questa è la testimonianza che san Feliciano ci ha lasciato in eredità; la sua lezione di vita ci insegna ad affrontare il martirio delle umiliazioni a cui può capitare a tutti di essere sottoposti. È utile richiamare, al riguardo, le parole pronunciate da Papa Francesco nell’omelia della Messa presieduta con i nuovi Cardinali da lui creati in occasione del suo primo Concistoro pubblico. “Amiamo coloro che ci sono ostili; benediciamo chi sparla di noi; salutiamo con un sorriso chi forse non lo merita; non aspiriamo a farci valere, ma opponiamo la mitezza alla prepotenza; dimentichiamo le umiliazioni subite (…). Un cuore vuoto di amore è come una chiesa sconsacrata, sottratta al servizio divino e destinata ad altro”.
Fratelli carissimi, perdonare non significa chiudere gli occhi dinanzi al male: non si perdona perché si dimentica, si dimentica perché si perdona! Il perdono non sostituisce il giudizio ma lo supera, ricrea le condizioni per un nuovo inizio, attesta che la misericordia di Dio precede il pentimento dell’uomo, chiamato a perdonare i nemici (cf. Mt 6,14-15), a “rivestirsi di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità” (cf. Col 3,12-15). San Feliciano ci aiuti a “rivestirci della carità”; egli che, come riferisce lo Jacobilli nella Vita dei Santi e Beati di Foligno, con le “mani ligate” ha benedetto la nostra città, venga in aiuto alla nostra debolezza: sciolga le nostre mani legate dal ricordo delle offese ricevute e ci conceda di sollevarle e di benedire.
+ Gualtiero Sigismondi, Vescovo di Foligno