23-01-2016
Fratelli carissimi, sempre di più avverto la grave responsabilità dell’affascinante compito di salire su questo ambone, ma nella festa del Patrono questo impegno sembra essere ancora più grande, non tanto a motivo dell’assedio dei fedeli che accorrono numerosi in Cattedrale, ma a causa del fatto che sperimento quanto sia oneroso essere successore di San Feliciano, autentico amico di Dio, che ha amato la verità più della propria vita, più della propria tranquillità. Egli ha edificato la nostra Chiesa particolare sul fondamento degli Apostoli, sigillando la trasmissione della fede con la testimonianza suprema del martirio. Con il fervore dell’offerta della sua vita egli ha riempito fino all’orlo il calice della carità pastorale.
Edificati dal fervore della testimonianza di fede di San Feliciano, chiediamoci cosa sia il fervore, cosa lo alimenti, cosa lo conservi, cosa lo soffochi, cosa lo manifesti. Il fervore è l’eco del mormorio dello Spirito santo il quale, con la brezza leggera del suo silenzio, rende “saldi nella fede, gioiosi nella speranza e operosi nella carità”. È il fervore che consente di annunciare dalle terrazze quello che si è ascoltato all’orecchio (cf. Mt 10,27). È il fervore che dà agilità e bellezza ai piedi del messaggero di lieti annunci (cf. Is 52,7). È il fervore che fa dire a San Paolo: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?” (Rm 8,35). Se ciò che alimenta il fervore è la letizia nel dono di sé, ciò che lo conserva integro è l’umiltà. Al contrario, la paura e la tristezza spengono il fervore: sua caricatura è l’intraprendenza priva di zelo, la vivacità priva di “entusiasmo sincero”. San Basilio definirà fervoroso “colui che con ardente alacrità d’animo e con insaziabile desiderio e indefessa cura compie la volontà di Dio nella carità di Gesù Cristo” (Regulae, 259).
Fratelli carissimi, il fervore è, per così dire, il sale della testimonianza cristiana, è il lievito della sua perenne vivacità. Inequivocabile è la parola che Gesù rivolge ai suoi discepoli: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso” (Lc 12,49). Ineludibile è l’esortazione con cui l’apostolo Paolo raccomanda ai primi fedeli di essere spiritu ferventes: “Non siate pigri nel fare il bene, siate invece ferventi nello spirito; servite il Signore” (Rm 12,11). Inesorabile è il richiamo fatto all’angelo, troppo tiepido, della Chiesa che è a Laodicèa: “Conosco le tue opere. Tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo!” (Ap 3,15). La tiepidezza impedisce di vivere in un’intensità di fede e carità, in un entusiasmo sempre ardente e fiducioso, in uno sforzo continuo di crescente perfezione, in un anelito di comunione con Cristo e di risoluta volontà di seguirlo e di servirlo. Paolo VI, al n° 80 dell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, sottolinea con forza che “fra gli ostacoli che rendono difficile il cammino dell’evangelizzazione si segnala la mancanza di fervore, tanto più grave perché nasce dal di dentro; essa si manifesta nella negligenza e soprattutto nella mancanza di gioia e speranza”.
Fratelli carissimi, il lessico della liturgia delle ore oltre a lasciare intendere che l’umiltà è il sigillo di garanzia del fervore, suggerisce che quello che è la salute per il corpo è il fervore per lo spirito. La lex orandi precisa pure la differenza tra fervore e ardore: il fervore è qualcosa che bolle, l’ardore è qualcosa che brucia; il fervore è legato alla fede, l’ardore alla carità. L’uno e l’altro rendono credibile la testimonianza della fede, troppo spesso ridotta a buon esempio; la testimonianza è molto di più: è comunicazione della verità nella consegna della propria vita. “La testimonianza – osservava Benedetto XVI – è confessio e, inscindibilmente, caritas. Questa dimensione non si giustappone a quella di confessio, ma ne costituisce la verifica: la carità legittima, per così dire, la verità, la rende credibile. La carità, come forma propria della vita cristiana, comunica in linguaggio accessibile ad ogni uomo, qualunque sia la circostanza in cui si trova, la verità del Vangelo”.
Il fervore della fede si esprime nell’ardore della carità e, viceversa, l’ardore della carità si manifesta nel fervore della fede. La vera imitazione di Cristo è l’amore, che alcuni scrittori cristiani hanno definito il “martirio segreto”. A tale riguardo Sant’Ambrogio esclama: “Quanti oggi sono in segreto martiri di Cristo e rendono testimonianza al Signore Gesù!” (Commento sul Salmo 118). L’Anno Santo della Misericordia ci sollecita a prendere coscienza del fatto che una peculiare forma di martyrìa è l’umiltà di offrire e di ricevere il perdono che, come dice la parola stessa, è l’espressione più alta del dono: è un dono che non sostituisce il giudizio ma lo supera, crea le condizioni per un nuovo inizio, per ricostruire i legami interrotti.
San Feliciano, che morendo ha pregato per i suoi persecutori, ci ottenga dal Signore la grazia di sperimentare che la forza del perdono è il vero antidoto alla tristezza provocata dal rancore e dalla vendetta. “Il perdono – assicura Papa Francesco – apre alla gioia e alla serenità perché libera l’anima dai pensieri di morte, mentre il rancore e la vendetta sobillano la mente e lacerano il cuore togliendogli il riposo e la pace”. La disciplina del perdono allena ad attivare percorsi di riconciliazione, a fare pace con le ferite proprie e altrui, chiamandole per nome. La pedagogia del perdono insegna a lasciare a Dio il giudizio ultimo su ciò che non si può accettare e la soluzione di quello che al presente è irrisolvibile o appare tale.
San Feliciano – riferisce lo Jacobilli nella Vita dei Santi e Beati di Foligno – è morto con le “mani ligate”, simbolo di un cuore legato per sempre a tutti noi! Il forte e perenne abbraccio del suo sguardo benedicente “accresca in noi il vigore della fede, perché nessuna tentazione possa estinguere quella fiamma che la grazia battesimale ha acceso nei nostri cuori”. Celebrando il dies natalis del nostro Patrono, “come fusse giorno di Pasqua”, riconosciamo in San Feliciano il “padre di famiglia” che ci sollecita a ravvivare la luce della fede nella libertà di una dedizione totale a Cristo e alla Chiesa. La lezione di vita di san Feliciano metta salutarmente in crisi il nostro modo un po’ sbiadito – privo di santo ardore! – di vivere il Vangelo.
Fratelli carissimi, il fervore è, per così dire, il sale della testimonianza cristiana, è il lievito della sua perenne vivacità. Inequivocabile è la parola che Gesù rivolge ai suoi discepoli: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso” (Lc 12,49). Ineludibile è l’esortazione con cui l’apostolo Paolo raccomanda ai primi fedeli di essere spiritu ferventes: “Non siate pigri nel fare il bene, siate invece ferventi nello spirito; servite il Signore” (Rm 12,11). Inesorabile è il richiamo fatto all’angelo, troppo tiepido, della Chiesa che è a Laodicèa: “Conosco le tue opere. Tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo!” (Ap 3,15). La tiepidezza impedisce di vivere in un’intensità di fede e carità, in un entusiasmo sempre ardente e fiducioso, in uno sforzo continuo di crescente perfezione, in un anelito di comunione con Cristo e di risoluta volontà di seguirlo e di servirlo. Paolo VI, al n° 80 dell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, sottolinea con forza che “fra gli ostacoli che rendono difficile il cammino dell’evangelizzazione si segnala la mancanza di fervore, tanto più grave perché nasce dal di dentro; essa si manifesta nella negligenza e soprattutto nella mancanza di gioia e speranza”.
Fratelli carissimi, il lessico della liturgia delle ore oltre a lasciare intendere che l’umiltà è il sigillo di garanzia del fervore, suggerisce che quello che è la salute per il corpo è il fervore per lo spirito. La lex orandi precisa pure la differenza tra fervore e ardore: il fervore è qualcosa che bolle, l’ardore è qualcosa che brucia; il fervore è legato alla fede, l’ardore alla carità. L’uno e l’altro rendono credibile la testimonianza della fede, troppo spesso ridotta a buon esempio; la testimonianza è molto di più: è comunicazione della verità nella consegna della propria vita. “La testimonianza – osservava Benedetto XVI – è confessio e, inscindibilmente, caritas. Questa dimensione non si giustappone a quella di confessio, ma ne costituisce la verifica: la carità legittima, per così dire, la verità, la rende credibile. La carità, come forma propria della vita cristiana, comunica in linguaggio accessibile ad ogni uomo, qualunque sia la circostanza in cui si trova, la verità del Vangelo”.
Il fervore della fede si esprime nell’ardore della carità e, viceversa, l’ardore della carità si manifesta nel fervore della fede. La vera imitazione di Cristo è l’amore, che alcuni scrittori cristiani hanno definito il “martirio segreto”. A tale riguardo Sant’Ambrogio esclama: “Quanti oggi sono in segreto martiri di Cristo e rendono testimonianza al Signore Gesù!” (Commento sul Salmo 118). L’Anno Santo della Misericordia ci sollecita a prendere coscienza del fatto che una peculiare forma di martyrìa è l’umiltà di offrire e di ricevere il perdono che, come dice la parola stessa, è l’espressione più alta del dono: è un dono che non sostituisce il giudizio ma lo supera, crea le condizioni per un nuovo inizio, per ricostruire i legami interrotti.
San Feliciano, che morendo ha pregato per i suoi persecutori, ci ottenga dal Signore la grazia di sperimentare che la forza del perdono è il vero antidoto alla tristezza provocata dal rancore e dalla vendetta. “Il perdono – assicura Papa Francesco – apre alla gioia e alla serenità perché libera l’anima dai pensieri di morte, mentre il rancore e la vendetta sobillano la mente e lacerano il cuore togliendogli il riposo e la pace”. La disciplina del perdono allena ad attivare percorsi di riconciliazione, a fare pace con le ferite proprie e altrui, chiamandole per nome. La pedagogia del perdono insegna a lasciare a Dio il giudizio ultimo su ciò che non si può accettare e la soluzione di quello che al presente è irrisolvibile o appare tale.
San Feliciano – riferisce lo Jacobilli nella Vita dei Santi e Beati di Foligno – è morto con le “mani ligate”, simbolo di un cuore legato per sempre a tutti noi! Il forte e perenne abbraccio del suo sguardo benedicente “accresca in noi il vigore della fede, perché nessuna tentazione possa estinguere quella fiamma che la grazia battesimale ha acceso nei nostri cuori”. Celebrando il dies natalis del nostro Patrono, “come fusse giorno di Pasqua”, riconosciamo in San Feliciano il “padre di famiglia” che ci sollecita a ravvivare la luce della fede nella libertà di una dedizione totale a Cristo e alla Chiesa. La lezione di vita di san Feliciano metta salutarmente in crisi il nostro modo un po’ sbiadito – privo di santo ardore! – di vivere il Vangelo.
+ Gualtiero Sigismondi, Vescovo di Foligno